Negli ultimi due anni il bilancio della Difesa è aumentato. Ma dietro l’operazione Mare Nostrum si cela il tentativo di ringiovanire il parco della Marina militare
L’operazione è stata definita “militare-umanitaria”: dopo la “guerra umanitaria” della fine degli anni ’90, il lessico del politically correct ha scovato un nuovo termine destinato a fare storia. Parliamo della operazione “Mare nostrum” annunciata pochi giorni fa dal governo italiano, dopo la grave serie di naufragi al largo di Lampedusa, che hanno di nuovo trascinato in prima pagina la mai sopita diaspora di chi dal sud del mondo vorrebbe arrivare al nord, dovendo però scalare il muro della Fortezza Europa. Donne uomini e bambini sono annegati a poche miglia dalla costa italiana. Il paese si è commosso. È persino partito un dibattito pubblico sulla opportunità di modificare la Bossi-Fini, una delle leggi più inefficaci del sistema Italia ma fino a oggi intoccabile.
Quale sia però la direzione che il governo intende imboccare è ormai abbastanza chiaro: il discorso va sempre a finire lì. La commozione lascia presto il passo alla necessità di “controllo”. Un controllo che, come ormai dimostrano almeno quindici anni di dati, ha soltanto causato morti e non è mai stato il volano di un sistema di reale e efficace gestione dei flussi migratori. Ma adesso, forse, c’è anche qualcosa in più.
“Difesa in default”
Negli ultimi due anni il bilancio della Difesa italiana è aumentato: nel 2013 l’esercito ha incassato 1 miliardo di euro. Sono i dati diffusi, tra gli altri, da Archivio Disarmo. Ma il tenore dei discorsi della difesa italiana sono ben altri, e proprio in questi giorni è in corso il braccio di ferro tra le varie “lobby” per strappare quanti più soldi possibile alla Legge di Stabilità. Che l’Esercito abbia visto lievitare i soldi a sua disposizione è elemento che si evince dai vari capitoli di spesa che fanno riferimento alla Difesa, divisi tra i vari ministeri e molto difficili da interpretare – un po’ come succede anche per i costi legati al “controllo” dell’immigrazione, come ricordano puntualmente i Dossier di Lunaria. Non a caso secondo il Sipri, che è l’organo internazionale che si occupa di monitorare la spesa militare mondiale, negli ultimi due anni la spesa militare italiana sarebbe diminuita. Non è vero, a saper leggere i conti. Ma sintomatico è il fatto che quest’estate il ministro della Difesa Mario Mauro in audizione davanti alla Commissione preposta del Parlamento abbia citato proprio i dati del Sipri per “battere cassa”, invece di portare quelli del ministero, che avrebbero detto ben altro. Scelta che non ha mancato di sollevare polemiche. Come anche le dichiarazioni, sempre in quella sede, del ministro, che richiamando addirittura il “possibile default della Difesa” ha affermato: “È necessario essere sempre pronti, perché nessuno è in grado di prevedere dove e quando dispiegare lo strumento militare”. Insomma: la minaccia è sempre dietro la porta. O in mezzo al mare. Non a caso uno dei comparti che (pare) avrebbe più bisogno di rinnovo è proprio quello della Marina, come non manca di ricordare in ogni occasione il Capo di stato Maggiore della Marina, De Giorgi. “La flotta si sta pericolosamente assottigliando, a breve non saremo più in grado di difendere gli interessi nazionali”, ha dichiarato recentemente. A questo quadro va aggiunto il fatto che le missioni militari all’estero stanno per essere in parte chiuse. Altro problema per l’Esercito che, in questo modo, vede sfumare una delle principali fonti di finanziamento degli ultimi anni.
Una utile “minaccia”
In questo quadro la “minaccia” dei barconi diretti verso le coste di Lampedusa casca “a fagiolo”. E poco conta che su quelle barche viaggino persone che scappano da guerre e persecuzioni come da almeno dieci anni per le persone provenienti da Eritrea, Etiopia, Sudan. E ora dalla martoriata Siria. Gente che persino per gli stitici trattati internazionali avrebbe pieno diritto a ricevere protezione e assistenza, e che invece deve arrivare fino alla Libia, ormai terra di nessuno, pagare le mafie internazionali, salire su navi pericolosissime e sfidare la morte. Per poi diventare, oltretutto, spunto per la costruzione di discorsi grotteschi, come quello del premier Enrico Letta e del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che invece di spiegare agli italiani da che parte stanno – se per esempio ritengano che la popolazione siriana per raggiungere l’Europa debba salire su dei barconi oppure se non sia necessario organizzare dei corridoi umanitari; se ritengono che la Bossi-Fini debba ormai dotarsi di meccanismi che rendano praticabile l’immigrazione oppure se sostengono la chiusura delle frontiere e per quali ragioni – hanno regalato alla popolazione l’immaginifica storia della nave militare che in mezzo al Mediterraneo intercetta il barcone e salva i profughi ospitandoli (lì, sul mare) in un vero e proprio ospedale. Per portarli poi dove, e in base a quale legge? Il ministro Alfano ha solo detto che “non tutti devono venire in Italia”. Forse qualcuno sta immaginando un’accoglienza in alto mare, per poi ingaggiare trattative con i vari paesi per l’accoglienza, magari trasferendo direttamente sulle navi le Commissioni in grado di dividere i profughi dagli immigrati non degni di ingresso, da rimandare direttamente indietro. Fantascienza? In questi anni di polemiche sugli arrivi via mare c’è anche chi ha teorizzato la possibilità di inviare navi già munite di personale incaricato di dividere i profughi dai “migranti economici”. E adesso che il cattolico Letta propone anche di fornire letti comodi e personale sanitario, non è detto che qualcuno non ci ripensi.
Ma aldilà della funzione che svolgeranno effettivamente le navi militari di “Mare Nostrum” – ed è appena il caso di ricordare che persino il nome è stato giudicato da alcuni inopportuno, rieccheggiando i “fasti” coloniali italiani – c’è anche chi fa notare, come l’ex ammiraglio Falco Accame, che una enorme nave non è il mezzo migliore per intercettare i barconi, e che invece a questo scopo sarebbero al limite più adatte le fregate leggere, come quelle della Guardia Costiera. Ma, evidentemente, il discorso si gioca su altri piani, e l’interesse dell’industria bellica e dell’Esercito è ringiovanire il parco della Marina.
Spese disumane
In ogni caso non va dimenticato che navi militari, elicotteri, fregate leggere e chi più ne ha più ne metta – in effetti ne hanno aggiunta una, e cioè i droni acquistati da Washington e che qualcosa dovranno pur fare – sono già state ampiamente utilizzate in questi anni per il controllo delle frontiere. La Libia è stata riempita di mezzi per il monitoraggio delle sue coste. L’Europa spende milioni per l’agenzia Frontex, deputata al controllo esterno delle frontiere. Il Dossier di Lunaria “Costi disumani” di quest’anno ricorda la crescita sorprendente del portafogli Frontex: se nel 2007 era di 19 milioni di euro nel 2011 era di 118,1 milioni. E non solo: il famoso trattato del 30 agosto 2008 firmato dall’Italia con la Libia prevedeva stanziamenti per 152 milioni di euro tra il 2009 e il 2011. Tra il 2009 e il 2011 il governo italiano ha anche fornito diversi mezzi alla Libia. La delega del controllo delle frontiere ha avuto effetti gravi, adesso come allora: non solo perché migliaia di persone furono rimpatriate in alto mare – come documentato dal film “Mare Chiuso” – ma anche perché da quelle motovedette si spara. Proprio i questi giorni lo hanno raccontato i naufraghi soccorsi a largo di Malta. Ma non è una novità visto che tre anni fa persino un peschereccio italiano fu mitragliato dai libici. I colpi partirono da una motovedetta su cui, ironia della sorte, erano imbarcati con il ruolo di “trainer” anche militari italiani.
(Articolo pubblicato dal sito Cronache di ordinario razzismo)