Gli effetti nefasti del cambiamento climatico sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti e ancora larga parte del settore economico ritiene la salvaguardia dell’ambiente come qualcosa di contrario alla crescita economica. Eppure, la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, è anche economicamente vantaggiosa. La prefazione del libro “Rigenerare il pianeta”.
È da diversi anni ormai che subiamo gli effetti devastanti del cambiamento climatico e del degrado ambientale sulla nostra vita, sulla società e sullo sviluppo economico. L’inquinamento e il riscaldamento globale causato dall’uso di combustibili fossili sono fatti incontrovertibili, sotto gli occhi di tutti. Fino a qualche anno fa erano chiari solo a scienziati e climatologi, ma oggi li viviamo sulla nostra pelle, tra ondate di calore e alluvioni senza precedenti. Esiste una letteratura sterminata prodotta da migliaia di ricercatori in tutto il mondo che ne documenta ogni aspetto. Certo, non mancano gli scettici e i negazionisti, sia sul clima sia sui vaccini, e abbiamo anche creazionisti che non credono all’evoluzione biologica. C’è chi giura financo che la Terra sia piatta. In questo libro, tuttavia, non ci metteremo a ripetere quello che è stato ampiamente spiegato e scientificamente accertato: proveremo ad andare oltre.
Qui ci interessa cercare di conciliare ciò che è evidente per gli scienziati dell’ambiente, ma che ancora non lo è per larga parte del settore economico, che ritiene la salvaguardia dell’ambiente come qualcosa di contrario alla crescita economica. Come molti economisti sanno, il capitalismo è soggetto a tre tipi di problemi, “le 3 i del sistema”: Instabilità della produzione, Iniquità della distribuzione di reddito e ricchezza e Inquinamento (Ardeni P.G., Gallegati M., La trappola dell’efficienza. Ripensare il capitalismo per uno sviluppo diverso, Luiss University Press, Roma, 2024).
La transizione ecologica ha effetti diretti sulla terza, cioè sulla natura, ma, rispetto a 40 anni fa, si è capito che la natura comprende in sé la società e questa, a sua volta, l’economia.
Per risolvere le instabilità si deve quindi assumere un approccio olistico e multi-sistemico.
La transizione ecologica è un processo inevitabile, le soluzioni per attuarla sono innumerevoli e alcune sono già in campo. Sappiamo cosa fare per sanare i problemi ambientali, ma queste scelte definite “ecologiche” sono viste come “costi” da parte della finanza e della teoria economica dominante.
Eppure, la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, ma è anche economicamente vantaggiosa. Si tratta di un investimento con una resa elevata in termini economici e che ha ripercussioni positive anche sulla nostra salute.
Qui vogliamo allora tracciare una mappa verso tale transizione, una strada che è ormai l’unica percorribile. Cominceremo con lo spiegare cosa sia effettivamente la transizione ecologica, spesso confusa con la transizione energetica. Cercheremo di chiarire perché sia necessaria e i rischi a cui andiamo incontro se non agiamo: dalle migrazioni forzate al sempre maggior impatto del cambiamento climatico, dalle pandemie alla carenza di acqua, di terreni coltivabili, all’ampliamento dei deserti. In seguito, illustreremo i molteplici vantaggi della realizzazione della transizione ecologica in termini economici e di salute pubblica. Dopodiché, parleremo dei principali ostacoli (economici, sociali e normativi) che ancora si frappongono alla sua realizzazione. Prima di chiudere ci soffermeremo sulle buone pratiche della transizione, su quali e quanti siano gli esempi virtuosi e i successi già conseguiti, per poi aprire una finestra sul mondo dopo la transizione, immaginando come potranno essere le cose una volta attuata. Una prospettiva che possiamo, e dobbiamo, costruire insieme. Solo con la transizione ecologica possiamo sperare di uscire da questo reticolo di crisi molteplici e interconnesse in cui ci troviamo avviluppati.
Questo libro cerca di far tesoro dei segnali positivi e tracciare la via verso l’unico futuro possibile per l’umanità. È un imperativo a cui non possiamo più sottrarci: ne va della nostra sopravvivenza sul pianeta.
La transizione ecologica è lo strumento per riappropriarci di un futuro che ci sta sfuggendo dalle mani, ma che è ancora possibile.
Partecipare alla transizione verso un mondo ecologicamente sostenibile significa mettere in atto cambiamenti profondi, sia sul piano sociale e culturale sia nel nostro vivere quotidiano. L’essere umano ha già dimostrato di sapersi adattare a condizioni mutevoli: si pensi solo alla trasformazione avvenuta negli ultimi vent’anni attraverso il digitale, con l’espansione di internet e lo sviluppo di sistemi di comunicazione da remoto. Ma gli effetti della transizione ecologica saranno ancor più marcati e significativi rispetto a quello che abbiamo visto in passato. Immaginare questo futuro è possibile perché in larga parte è già una realtà, anche se rimane molto lavoro da fare. Che volto avrà il mondo dopo la transizione?
Sicuramente, la qualità della nostra vita migliorerà in maniera determinante. L’impatto umano sul pianeta sarà azzerato o almeno reso sostenibile, cambieranno i sistemi di produzione dell’energia, le modalità e i sistemi di trasporto, l’agricoltura e l’allevamento, i rapporti con l’ambiente, i sistemi di consumo e le scelte di investimento degli Stati. Habitat e biodiversità saranno rigenerati e recuperati dal loro stato di degrado, politiche serie di conservazione ne impediranno il danneggiamento. Il nuovo approccio verso la natura e il pianeta che ci ospita ci permetterà di continuare a usufruire dei servizi ecosistemici essenziali, non più secondo la cieca logica del consumo sfrenato, ma in un circolo virtuoso che avrà anche ripercussioni sanitarie dirette e positive. Il PIL smetterà di essere il metro per giudicare il progresso di una nazione, gli individui passeranno da consumatori a cittadini attivi e il futuro finalmente avrà un posto di rilievo nelle scelte del presente.
Si ridurranno le distanze sociali tra le classi più ricche e quelle più povere, che sono aumentate negli ultimi anni (almeno 5 miliardi di persone sono più povere oggi rispetto a prima della pandemia)e anche la disoccupazione calerà. In questo senso, la transizione sarà un grande e portentoso strumento di pacificazione sociale, a livello locale e globale. Poiché ridurrà le disuguaglianze, aiuterà a prevenire malattie, offrirà maggiori opportunità alle popolazioni meno sviluppate e alle comunità indigene.
La produzione di energie rinnovabili faciliterà il passaggio da un sistema di produzione energetica dominato da pochi e altamente controllato anche in termini di prezzi del mercato a un sistema dove perfino le piccole realtà isolate potranno essere autosufficienti, con la costituzione di comunità energetiche locali.
Tramite i sistemi a energia solare, abitazioni, complessi residenziali, singole famiglie, condomini e piccole e medie imprese potranno produrre energia a basso costo. Saranno soprattutto i sistemi geotermici, eolici e solari a espandersi, aiutando a ridurre le emissioni di gas clima-alteranti. Altri sistemi di produzione di energie rinnovabili come l’idroelettrico saranno invece sempre meno appetibili o entreranno in dismissione, diminuendo l’impatto delle dighe sugli equilibri ecosistemici e il funzionamento di interi territori.
Basati sull’idrogeno o sull’elettrico, i sistemi di trasporto del futuro saranno più efficienti, annullando inoltre le emissioni di polveri inquinanti e i loro effetti nocivi sulla nostra salute. Lo sviluppo di infrastrutture verdi consentirà una maggiore efficienza energetica complessiva, attraverso sistemi termici basati su soluzioni naturali. Le conseguenze negative delle cosiddette isole di calore urbano saranno mitigate, migliorando la qualità dell’aria e riducendo i contaminanti, contribuendo a una vita più sana e salubre anche nelle aree urbanizzate.
L’economia “circolare”” ci aiuterà a consumare in maniera più sostenibile, non solo in ambito alimentare, ma anche in alcuni settori con un “ritorno al passato”, cioè imparando di nuovo l’importanza del riutilizzo dei materiali e invertendo la tendenza allo smaltimento istantaneo. Così diminuiranno naturalmente i rifiuti, le plastiche, le sostanze inquinanti e nocive per gli ambienti. Un nuovo modello di produzione contribuirà a stimolare il riciclo, ideando merci che, una volta esaurita la destinazione d’uso iniziale, saranno già progettate per adempiere ad altri compiti.
L’agricoltura 4.0 saprà minimizzare gli sprechi idrici, diversificare i prodotti, sviluppare modelli di agro-ecologia e permettere la produzione di cibo di elevata qualità nutrizionale senza l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, promuovendo la salute del suolo e tutelando il prezioso humus e le risorse idriche.
Questo è solo uno dei futuri possibili. Probabilmente non tutto avverrà esattamente così, forse gli sviluppi tecnologici prenderanno una direzione invece che un’altra, ma indubbiamente è un futuro simile a questo, che si faccia carico di società e natura allo stesso tempo, quello di cui abbiamo bisogno. L’alternativa, lo abbiamo detto, è impensabile: ne va della sopravvivenza della nostra specie.
Un ripensamento delle attività umane di questa portata e complessità richiede impegno individuale, volontà politica e investimenti. I costi della transizione spesso spaventano, ma non si può dimenticare che il suo obiettivo è il benessere collettivo. Che le imprese multinazionali siano le principali responsabili dei danni ambientali è ben documentato, eppure il diritto internazionale sembra incapace di imporre a tali società vincoli stringenti per diventare ecologicamente sostenibili. La delocalizzazione dei processi produttivi si è tradotta in esternalità negative per gli ecosistemi naturali, tra cui l’inquinamento marino e atmosferico, lo sfruttamento di risorse non rinnovabili, l’inquinamento da petrolio e la deforestazione.
Secondo le stime, più della metà delle emissioni di anidride carbonica sono provocate dalle imprese multinazionali, responsabili anche della maggior parte dei rifiuti tossici generati dal settore dell’industria chimica e manifatturiera. Per questo è urgente che il quadro giuridico nazionale e internazionale faccia passare un principio sacrosanto: “chi inquina smette di produrre e chi ha già inquinato paga”.
Oltre a questo, la rimodulazione del nostro stile di vita, dei sistemi produttivi e delle scelte di investimento dello Stato richiedono tre elementi fondamentali:
1. un’educazione civica che spinga verso la consapevolezza ambientale, indirizzata agli obiettivi di sviluppo sostenibile che rappresentano la nuova carta dell’umanità, intesa come un programma globale di salvaguardia dei diritti dell’uomo e del pianeta;
2. una cooperazione globale, che abbia come nemico principale la contrapposizione delle culture, il frazionamento della natura, l’aumento del divario sociale. Una cooperazione che significhi anche la fine delle guerre, che distruggono l’ambiente e dirottano i fondi necessari alla transizione verso la produzione di armamenti;
3. il perseguimento di obiettivi di natura etica, di giustizia ambientale, poiché affrontare i problemi legati alla disuguaglianza significa anche affrontare la disuguaglianza ambientale, che contribuisce all’impoverimento e all’emarginazione delle popolazioni più povere del pianeta e delle comunità indigene.
L’Antropocene è un’era di indubbio successo economico, un successo che però si è materializzato a discapito della natura. Questa prospettiva non è più sostenibile. Anche azzerando la produzione di CO2 dovremo rimboccarci le maniche per affrontare enormi crisi ecologiche, dalla perdita della biodiversità alla deforestazione, dall’acidificazione degli oceani alla sovrappopolazione, dalla grave perturbazione del ciclo dell’azoto (e di altri cicli biogeochimici), a molti altri problemi che affrontiamo in questo libro.
La crescita della popolazione e l’idea di sviluppo imposta da un’economia predatoria hanno provocato effetti devastanti sull’integrità della biosfera e minacciano già di portare molte specie verso l’estinzione, incluso l’Homo sapiens. Ci sono vie di fuga meno drastiche rispetto a riprodursi di meno. Si può produrre in modo compatibile con l’ambiente e con l’umanità, cioè col benessere e non col PIL. Se non lo facciamo saranno le prossime generazioni a pagare.
Fingiamo che del futuro ci importi qualcosa, ma continuiamo a seguire lo stesso modello di sviluppo che ci sta portando alla catastrofe, senza preoccuparci poi troppo. Ci comportiamo come Groucho Marx che diceva: “Perché dovrei preoccuparmi per le generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?”.
Prendere davvero consapevolezza che siamo su un cammino pericoloso e che esiste un sentiero più sicuro da seguire è il primo passo fondamentale per riconquistare il futuro.
