Risparmi, investimenti e moneta. Le lacune del pensiero economico sulle questioni che sono a monte della crisi, e i disastri della pratica politica
Vado sostenendo che il dibattito sorto a seguito della crisi, concentrandosi su vicende contingenti, rischi di mancare il bersaglio grosso: le gravi lacune dell’economia teorica su questioni che sono ben a monte della crisi e che vengono sottaciuti, quando non ignorati totalmente, dalla maggior parte degli economisti contemporanei che non si peritano di dare saggi consigli di policy. A valle di quelle lacune e credo in parte per effetto della “zona opaca” che da esse deriva si collocano importanti difetti delle strategie e degli assetti delle istituzioni economiche europei. Qui mi occupo, in relazione a concetti, quali quelli evocati da parole – “finanziarizzazione”, ascesa della “paper economy”- che occupano il dibattito corrente, di risparmi, investimenti e moneta.
Una osservazione preliminare: esiste uno scostamento tra il significato che il termine “investimento” ha per le persone comuni e per gli economisti. I primi intendono l’acquisto di case, terreni, titoli di stato e altre obbligazioni, fondi di investimento, e azioni; inoltre non distinguono, tra i titoli finanziari, quelli di vecchia o corrente emissione, né necessariamente, per le case, se si tratta di nuove o vecchie costruzioni. Riferendosi alle imprese esse intendono le spese fatte per comprare o costruire macchinari, per costituire i magazzini, ecc. Gli economisti intendono invece solo, tra i flussi di spesa fatti nell’anno per scopi produttivi, quelli che servono per più anni e non sono di norma recuperabili direttamente nello stesso anno, ma rateando il loro recupero (ammortamenti), e chiamano “I” tali flussi, riferendosi esclusivamente a quelli produttivi e non considerando di norma altri investimenti, in particolare quelli finanziari, a parte i titoli del debito pubblico. Ciò che conduce gli economisti ad ignorare l’accezione comune è l’ipotesi latente che i flussi di liquidità che affluiscono agli investimenti finanziari siano sempre da ultimo trasferiti a finanziare investimenti produttivi.
L’eguaglianza S=I riferita agli aggregati di un paese senza rapporti con altri è un dogma che gli economisti succhiano con il latte dei primi corsi di economia. Essa nasce con riferimento ad una società semplice, in cui il grano risparmiato dai capitalisti e da questi usato come sementi e come sussistenza pagata ai lavoratori è investimento che darà successivamente luogo ad un raccolto maggiore di quanto “speso”. La stessa eguaglianza è stata poi mantenuta (dagli approcci “neoclassici”) nel considerare società più complesse, con moneta e con la possibilità che anche i lavoratori possano risparmiare, ipotizzando che il tasso di interesse renda eguali risparmio offerto e risparmio domandato (sia per consumi immediati sia per fare investimenti), e anche (con diverse motivazioni) da Keynes.
Ma se i flussi di nuovo risparmio al netto della redistribuzione interpersonale di consumi vengono completamente assorbiti, a livello di sistema, dai nuovi investimenti produttivi, non può avanzare nulla, quanto meno per quanto concerne il risparmio, per fare quelli che le persone comuni chiamano “investimenti”; in particolare non può esservi quell’eccesso di domanda di vecchie case, di terreni, di azioni emesse nel passato che è alla base del loro aumentare di valore e, più in generale, dei fenomeni di finanziarizzazione cui il dibattito corrente fa riferimento. Tali investimenti dovrebbero nel caso derivare tutti da moneta creata dal sistema creditizio a tale scopo, il che francamente non convince (la gente usa risparmi, non solo prestiti bancari).
Quindi o c’è qualcosa di fasullo in S=I applicato alle società moderne o la finanziarizzazione (come il contagio di peste) non esiste (non essendo né sostanza né accidente, né acqua o aria o terra o fuoco).
C’è di più. Un autorevole filone di teoria economica, quello che tratta della crescita dei sistemi, ha chiarito che il risparmio necessario allo sviluppo (quello che serve per finanziare non gli investimenti rivolti a sostituire la capacità produttiva che scompare perché le macchine, pur longeve, hanno una durata limitata, ma solo quelli – chiamiamoli I* – rivolti ad accrescere la capacità) è tanto maggiore (per dati parametri di produttività legati alla tecnologia) quanto maggiore è il tasso di sviluppo. Per un tasso pari a zero il risparmio necessario deve essere pari a zero. Questo avrebbe dovuto far squillare un campanello di allarme. Vi è davvero chi pensa che, se l’economia ristagna, solo per questo le famiglie cessino di risparmiare? Ovvero che esse, in situazioni di sviluppo positivo, adattino la quantità di risparmio ai cambiamenti delle tecnologie?
Sta di fatto che quasi ogni economista, maturo o in formazione, viziato dall’abitudine a non pensare a sistemi in movimento (dinamici), è sostanzialmente persuaso che I (non I*) assorba di necessità tutto S. E’ così che succede che anche gli economisti di simpatie keynesiane cadano nell’equivoco: ciò che sul mercato non viene domandato per consumare (C nel gergo dei macroeconomisti) non può che essere domandato per investire; e poiché –si dice- ciò che non viene consumato è risparmiato, gli investimenti non possono che essere eguali al risparmio.
L’errore è nascosto nel “si dice”. Come le persone comuni ben sanno, chi risparmia può scegliere tra comprare macchinari o azioni appena emesse in corrispondenza di accrescimenti della capacità produttiva, ovvero accumulare risparmi nei depositi bancari (possibilità ben chiara a Keynes), comprare titoli finanziari già esistenti, case (prevalentemente esistenti), terreni, preziosi, contando sul fatto che tali assetti di ricchezza siano un buon modo di conservazione del potere di acquisto, possibilmente portatori di buoni rendimenti in termini di rendite e di incrementi di valore patrimoniale. Perché tali opzioni non dovrebbero avere riflessi sistemici?
Queste considerazioni assumono ancor più rilievo ove si pensi che I* è tipicamente ben minore di I (che comprende gli investimenti di rimpiazzo della capacità che viene meno). Tanto per far capire gli ordini di grandezza: se le macchine durano due anni, il tasso di crescita è del 5%, la capacità produttiva corrente è di 205 (100 macchine di due anni, 105 di un anno), per l’anno successivo si stanno preparando macchine per 110,25 (I), di cui 100 costituiscono il rimpiazzo delle 100 che a fine anno scompariranno, mentre sono solo 10,25 gli investimenti di crescita (I*).
Ebbene, gli investimenti sostitutivi (per 100) non possono essere finanziati attraverso trasferimenti di risparmi delle famiglie, ma devono essere finanziati attraverso i ricavi correnti (fanno cioè parte del valore di C). Se così non fosse vorrebbe dire che le famiglie trasferiscono i propri risparmi a imprese in via di fallimento, perché non riescono a recuperare con gli incassi il costo pieno di ciò che producono.
La stessa pessima abitudine ad extrapolare le caratteristiche di una società troppo semplice, imperniata su una “economia a grano”, a società moderne, complesse, con finanza e moneta, nonché a fare riferimento a contesti statici, ha finito per falsare non solo le relazione I/S, ma anche le riflessioni sui meccanismi di creazione della moneta e sul ruolo di questa.
Lasciando perdere le ipotesi più fantasiose (le banconote che cadono a caso dall’elicottero, a somiglianza della manna che cade dal cielo), le fonti primarie della moneta sono oggi indicate nei meccanismi delle c.d. “operazioni sul mercato aperto” da parte delle banche centrali: quando queste comprano titoli esse immettono moneta nel sistema. Certamente vero nel breve periodo. Ma come nascono i titoli? Quando vengono emessi non sottraggono forse moneta? Ovvio che fuori dal breve periodo andrebbe spiegata insieme la crescita della moneta e dei titoli.
Una ipotesi più convincente venne suggerita da Wicksell fin dal 1898: sarebbe il sistema bancario, con le sue capacità di erogare credito, che finanzierebbe la domanda di moneta espressa dal sistema delle imprese per pre-finanziare le spese produttive (compresi gli investimenti). Dietro tale tesi vi era la rivoluzionaria intuizione, condivisa da Keynes, che le imprese chiedono moneta e non interessa loro se e in che misura questa provenga dal risparmio.
La possibilità di ottenere moneta prima di affrontare le spese di produzione, con ciò “comandando” direttamente l’uso delle risorse, rimuove il vincolo ex ante che nell’economia a grano era costituito da grano risparmiato dai capitalisti e da essi investito, anche se sposta a valle, ai momenti ex post, quando hanno luogo le vendite e il debito deve essere restituito alle banche con gli interessi, i necessari aggiustamenti. Questa è la sostanziale novità di una economia monetaria.
Wicksell era troppo legato al pensiero classico e al nascente pensiero neoclassico per sfuggire del tutto alla convinzione non solo che dovesse valere l’eguaglianza S/I, ma che dovesse esservi a fine periodo “pulizia” in tutti i mercati, compreso quello della moneta; egli pensava infatti che la moneta creata ad inizio periodo si dovesse riassorbire completamente a fine periodo. Un più attento riesame del funzionamento del circuito monetario wickselliano mostra invece che, al di fuori di casi veramente singolari (assenza di risparmio delle famiglie, assenza di interessi e profitti monetari, assenza di crescita) il circuito non può chiudersi ed occorre invece una immissione aggiuntiva di domanda monetaria, che Graziani (ad esempio) indicò nella spesa pubblica in deficit. Tesi del resto in linea con i pochi modelli di crescita con moneta (ad esempio Tobin).
L’idea che la presenza di deficit pubblici sistematici dovesse essere ritenuta una esigenza fisiologica di un sistema economico con moneta, anziché il segno di un comportamento vizioso dei suoi governanti, sembrava allora tuttavia , e sembra tuttora a molti economisti moderni, troppo blasfema per essere raccolta non solo dalla maggioranza degli economisti, ma soprattutto da parte delle autorità di policy.
Ma oggi è il caso di essere più realistici. Le banche non fanno credito solo per pre-finanziare le spese produttive. Esse finanziano anche, e a volte prevalentemente, gli investimenti speculativi. Al risparmio in eccedenza rispetto agli investimenti di crescita, che le famiglie tendono ad impiegare per comprare ricchezza per lo più improduttiva, si aggiunge quindi la pressione del credito speculativo. Si determina così un duplice fattore di eccesso di pressione monetaria a fronte di uno stock di ricchezza reale che cresce poco o nulla, con una conseguente inflazione del valore di tale stock e/o il moltiplicarsi di offerte artificiali di opzioni finanziarie. Di qui il prosperare della paper economy.
Al contempo tuttavia tendono a succedere varie cose importanti, tutte negative.
Gli incrementi di valore della ricchezza finanziaria e improduttiva assicurano alti rendimenti, specie in certe fasi del ciclo, a chi agisce nei connessi mercati (Minsky); gli alti rendimenti distorcono gli impieghi di liquidità, spiazzando spesso gli investimenti produttivi con conseguenze negative sullo sviluppo reale successivo; la distribuzione del reddito e della ricchezza ne viene profondamente sconvolta, arricchendo i ricchi e impoverendo i poveri al di fuori del tradizionale terreno di conflitto salari/profitti; la distorsione distributiva si riflette su quella dei consumi, facendo calare relativamente la (tradizionalmente più stabile e affidabile) domanda dei beni di consumo di massa e probabilmente, in fasi di crisi, quella complessiva, con conseguenze occupazionali e di reddito che acuiscono i fattori di crisi. E magari quando i mercati speculativi crollano e banche e istituti finanziari rischiano di fallire, ma non possono perché “they are too big to fail”, sicché lo stato li salva, si troverà sempre qualche ben pensante catone che suggerirà restrizioni ai deficit pubblici, con peggioramento della domanda.
Le banche e la maggior parte degli istituti finanziari e i loro manager galleggiano comunque, sotto l’ombrello di reticenze regolamentari e di una potenziale copertura assicurativa pubblica, operando non solo al rialzo ma anche al ribasso dei mercati e comunque lucrando commissioni sui movimenti finanziari. E poiché nel mondo alla beffa si associa spesso l’inganno, capita anche che lo studio delle necessarie riforme si avvalga della consulenza determinante dei maggiori esponenti del mondo bancario e finanziario.