La più feroce e criminale rappresaglia degli occupanti nazisti contro la Resistenza e le popolazioni civili in ambito urbano: queste sono state le Fosse Ardeatine: 335 morti, 5 alla volta in 67 turni.
La più feroce e criminale rappresaglia degli occupanti nazisti contro la Resistenza e le popolazioni civili, in ambito urbano: queste sono state le Fosse Ardeatine. Una strage compiuta da chi si riteneva invincibile, con la collaborazione dei fascisti e dei repubblichini, per lavare con il sangue la “lesa maestà”. Ottanta anni e le ragioni che stanno dietro a quei tragici eventi ancora vengono equivocate.
Siamo all’8 settembre 1943: le forze della Resistenza a Roma, dall’insurrezione di Porta San Paolo, prendono a organizzarsi per rendere impossibile la vita, in qualsiasi modo, ai nazisti. Impresa impensabile dopo il crimine assoluto della deportazione di 1.022 ebrei nella retata del Ghetto del 16 ottobre 1943, una delle più feroci “Judenaktionen” avvenute nell’Europa occidentale. Una ferita che lascia storditi. E ciò dopo i continui rastrellamenti che la città deve subire con l’invio dei cittadini romani al “lavoro forzato”. Per non parlare della pressione continua esercitata sulle forze della Resistenza attraverso quel luogo di tortura che è il carcere di Via Tasso: qui avverranno arresti, interrogatori e torture feroci, condotte dal feroce capitano Erich Priebke. E’ quello l’anticamera della morte e il luogo più terrificante della Capitale: un simbolo dell’occupazione tedesca, da cui passeranno oltre 2.000 antifascisti prima di essere trucidati alle Fosse Ardeatine, a Forte Bravetta, a La Storta. Un luogo che nelle intenzioni dovrebbe servire da deterrente.
E invece i partigiani vogliono colpire i nazisti nei luoghi dove è insediato – in un atmosfera da basso impero – il loro stato maggiore, ovvero nel quartiere Ludovisi, tra Corso d’Italia e Via Veneto.
Ad ottobre 1943 i Gruppi di Azione Patriottica cominciano a organizzarsi per strappare di mano la città ai fascisti, ai repubblichini e ai nazisti. Per combattere meglio, dividono la città e la propria rete clandestina in otto zone e otto comandi: le azioni armate sono pericolose e non si può sbagliare. Scelgono di resistere con la violenza, ma nessuno è disposto a fare di necessità virtù, come spiegherà poi Rosario Bentivegna.
Non agire significa abbandonare il destino comune a chi deciderà per loro, come ha deciso per gli abitanti del Ghetto. I resistenti scelgono di difendere sé stessi e tutti per dignità e non per odio.
Il 28 ottobre, il giorno dell’anniversario della Marcia su Roma, i GAP decidono di scatenare la guerriglia in città, con 22 attacchi: a Palazzo Braschi, a Piazza Sonnino, nel quartiere Trieste, contro la Caserma Mussolini di Via Baiamonti, dietro Viale Angelico.
Il 18 novembre al Teatro Adriano si svolge una grande adunata di fascisti e nazisti: parla Rodolfo Graziani, Ministro della guerra della Repubblica di Salò, e Kappler è in sala. Sei chili di tritolo sono stati piazzati all’ingresso e dovrebbero esplodere alle 16 e 45. Ma il timer non funziona e l’azione fallisce: l’esplosivo lo si ritroverà solo mesi dopo, ancora intatto.
Il mese di dicembre 1943, per i GAP e la Resistenza romana, è un mese di azioni armate, che colpiscono decine e decine di nazisti, tra cui quelle del 17 e 18 dicembre a Piazza Barberini, anche all’uscita del cinema, e, il 28 dicembre, con l’attacco al carcere di Regina Coeli. È la conferma di quel che tutti sanno: Roma, per i nazisti e per i fascisti, è una città ribelle e pericolosa.
Dopo le fucilazioni di Forte Bravetta, la Resistenza comprende che è necessario “colpire i tedeschi e i repubblichini” e “portare l’azione dei GAP su un piano più alto”.
Da questa valutazione si giunge a concepire l’idea di un attacco in grande stile: viene organizzato per il 23 marzo, nel venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci italiani di combattimento. La preparazione è accurata, perché ormai non si può lasciare davvero nulla al caso.
Lucia Ottobrini detta “Maria”, Mario Fiorentini detto “Giovanni”, Rosario Bentivigna detto “Paolo” e Carla Capponi detta “Elena” studiano, per giorni, il percorso dei soldati del battaglione Bozen delle SS. Lo controllano col cronometro alla mano. Per raggiungere Via delle Quattro Fontane, la colonna deve passare per Via Rasella. La strada è stretta ed è adatta a un attacco e in più, allora, è poco frequentata. Una bomba verrà collocata dunque al civico 156, di fronte a Palazzo Tittoni, perché l’edificio allora è semivuoto.
La sera prima, Raoul Falcioni porta nei pressi del Colosseo una divisa da spazzino e un carretto per le immondizie, trafugato da un deposito della Nettezza Urbana. Sasà Bentivegna, camuffato da netturbino, fa esplodere l’ordigno esplosivo nascosto nel carretto. Carla Capponi gli fa da palo. Dopo la deflagrazione alcuni gappisti lanciano quattro bombe a mano e impegnano i tedeschi in uno scontro a fuoco. Muoiono sul colpo 32 uomini del battaglione nazista. Altri, feriti, moriranno più tardi.
Tra l’attacco e la reazione dei militari tedeschi, perdono la vita anche due cittadini romani. L’azione ha assestato un colpo gravissimo alla propaganda fascista e nazista.
Così, appena termina la sparatoria, iniziano i rastrellamenti: arrivano sul posto il questore Pietro Caruso, il generale Mälzer, il colonnello Dollmann, il console tedesco Moellhausen, il ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana Buffarini Guidi e, per ultimo, il comandante delle SS Herbert Kappler.
Roma sarà l’unica città europea, tra quelle occupate dal Reich nazista, a infliggere un colpo così duro all’esercito di Hitler. Il giorno dopo, venerdì, si prepara l’inferno.
Non è la prima volta che i partigiani romani combattono gli occupanti con le bombe. Ma questa volta i nazisti sono furiosi, perché l’azione, valutata sul piano militare, ha offuscato il prestigio araldico del Reich.
Appena riceve la notizia, nel bunker della Cancelleria, Hitler esplode in una crisi di follia isterica e ordina «Fucilate 50 italiani per ogni tedesco morto, fate saltare in aria il quartiere con la dinamite». Kesserling riduce il numero da 50 a 10.
A Kappler, l’uomo di Via Tasso, il torturatore, si affida il compito di organizzare la strage: deve riunire un gruppo di oltre trecento persone da sterminare rapidamente e senza creare clamore. Ma intanto bisogna trovarli, 320 cittadini da trucidare. Sì, ci sono i condannati a morte nel braccio nazista del carcere di Regina Coeli, ma sono pochi; Kappler aggiunge allora i condannati dal Tribunale militare tedesco di Roma. Non bastano. Aggiunge i prigionieri di Via Tasso, Cordero Lanza di Montezemolo in testa. Non basta ancora; ci sono gli ebrei da prelevare dalla Judenlist e i rastrellati attorno a Via Rasella. Ma il numero non si raggiunge facilmente. Vengono chiamati il questore Caruso e Pietro Koch, per contribuire alla causa. Ecco: con gli uomini sequestrati nella pensione Jaccarino, si raggiungono finalmente i 320.
Ma ad ammazzarle una dopo l’altra, tutte quelle persone, ci vuole un sacco di tempo e il tempo non c’è: c’è una città che freme e non deve vedere, non deve sapere troppo: bisogna essere rapidi, è essenziale. Bisogna farsi venire un’idea. Una fossa comune non è possibile, niente ora è meno opportuno di un tale eccidio all’aria aperta. Ci vorrebbe una grotta e il capitan Kohler conosce quel labirinto di gallerie che si stende sotto la Via Ardeatina. Sono cave esaurite e abbandonate vicino alle Catacombe di San Callisto e Santa Domitilla. Kappler le ispeziona direttamente col capitano. Si decide che sono adatte alla strage. Tutti i prigionieri, che arrivano da luoghi diversi, vengono portati all’interno del grande spiazzo.
L’eccidio inizia alle 3 e 15 del pomeriggio del 24 marzo del 1944. Si procede in modo ordinato. Un plotone di cinque tedeschi si reca all’imboccatura delle cave, qui incontra cinque prigionieri in piedi, legati l’uno all’altro. I prigionieri vengono condotti alla fine della galleria centrale, lì sono messi in ginocchio con la testa al muro e attendono la morte così, finché il plotone non si sistemi a fucilarli. Vengono fucilati e i loro corpi sono accatastati uno sull’altro. Cinque alla volta, in sessantasette turni.
Kappler comanda le operazioni, Priebke controlla che tutto proceda regolarmente e, a fucilazione avvenuta, spunta i nomi degli uomini dalla sua lista. Ma anche così ben organizzato il lavoro è lungo e impegnativo: l’ultimo condannato a morte viene fucilato alle 8 di sera.
Non resta ora che chiudere l’accesso alle cave, in modo che nessuno possa scoprire il sepolcro. I nazisti minano gli ingressi e procedono a farli esplodere. Alla fine di un’operazione così diligentemente condotta, però, i conti sulle agendine dei carnefici non tornano. I morti alla fine sono 335: 55 di Bandiera Rossa, 48 del Fronte Militare Clandestino e del Fronte clandestino di Resistenza dei Carabinieri, 46 del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà, 34 del Partito Comunista, 16 del PSIUP, 8 del CLN, 1 della DC, 1 del Partito Repubblicano; 65 sono le vittime della Shoah romana, 54 gli uomini identificati solo per le loro professioni e i detenuti comuni, 7 restano difficili da identificare, 11 di loro sono stranieri.
Kappler rientra al suo quartier generale; ai giornali, alle 22 e 55 del 24 marzo, viene consegnato un comunicato che recita: “Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per Via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che, per ogni tedesco ammazzato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.
Si badi: non “quest’ordine verrà eseguito” ma “quest’ordine è già stato eseguito”.
Quel passato prossimo non è un errore grammaticale: è l’affermazione di chi non ha mai voluto che, tra la decisione della strage e la sua esecuzione, si aprisse il diaframma di un tempo in cui l’esito degli eventi potesse mutare.
Silvano Falocco è coautore, con Carlo Boumis, di “La Resistenza a Roma”