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La parabola dell’interesse generale

Se la dimensione economica esclude tutte le altre, l’idea di “interesse generale” si perde e quest’ultimo esce di scena. Svuotando il ruolo della politica

Ogni visione dell’economia, e della politica economica in particolare, così come, più in generale, ogni progetto politico prende a riferimento, o è costruito intorno ad una qualche idea di interesse generale. Questa considerazione vale ovviamente anche per una cultura, come quella del mercato, che attribuisce un ruolo centrale all’egoismo individuale nel determinare le condizioni dello sviluppo e della dinamica sociale e rende apparentemente meno necessario il riferimento ad un interesse generale non inteso come somma degli interessi dei singoli. L’unica differenza sta nella minore immediatezza, nel carattere implicito che ha assunto una nozione di interesse generale che pure è entrata nel “senso comune” prevalente.

Il paradigma che si è consolidato negli ultimi trenta anni ha in qualche modo radicalizzato le logiche del laissez faire, trovando il suo retroterra teorico in una concezione naturalistica della scienza economica che era stata quasi del tutto abbandonata dopo la seconda guerra mondiale. La sostanziale assimilazione delle leggi economiche a quelle naturali che caratterizza questo approccio ha comportato come conseguenza una definizione più rigida dei confine tra l’economico e il non economico. Le tensioni che sono proprie della realtà sociale, in particolare, sono finite con l’apparire non solo come qualcosa di estraneo alla dimensione economica ma anche di sostanzialmente contrapposto ad essa. In un approccio di questo tipo, infatti, voler perseguire gli obiettivi indicati dalla società in quanto tale, quasi sicuramente vuol dire fare scelte “costose”, perché non ottimali dal punto di vista economico. La conseguenza di quello che si è appena detto dal punto di vista del l’interesse generale è che questo può trovare una sua definizione o all’interno della dimensione economica, o almeno all’interno dei vincoli che pone la dimensione economica.

In questa impostazione, il fatto che la società con i suoi elementi di complessità e con tutte le sue contraddizioni sia esclusa dall’analisi economica, che venga eliminato una parte del retroterra all’interno del quale si può arrivare ad una sua definizione, si traduce in una idea di interesse generale che perde ogni dimensione storica e viene in qualche modo decontestualizzata. La stessa dimensione geografica perde di senso. In un mercato non a caso definito globale il significato che deve essere dato al termine “generale” diventa ambiguo ed assume nuovamente un qualche contenuto solo se la collettività che può essere considerata portatrice di questo interesse coincide con il mercato globale stesso. In altre parole, le singole società nazionali non possono più essere viste come portatrici di un qualche interesse generale. O meglio, possono tornare ad esserlo solo se pensano la loro politica di intervento come uno strumento di sostegno per gli attori economici che si muovono, e hanno la capacità di muoversi a livello “globale” e cioè le imprese e, più in particolare, le imprese multinazionali.

La conclusione implicita a cui si giunge attraverso questo modo di impostare la questione, e quindi all’interno della cultura del mercato degli ultimi decenni, è che l’interesse generale può essere tutelato, all’interno di ciascun paese, solo se si prende atto della dimensione globale dei problemi e si sviluppano politiche coerenti. L’elemento paradossale di questa conclusione sta nel fatto che l’interesse generale in ciascun paese può e deve essere perseguito attraverso politiche che supportano gli interessi di una componente del paese stesso e, in particolare, della sua componente economicamente e politicamente più forte.

Non sorprende che la politica, muovendosi all’interno di questo tipo di cultura, ed esposta alle ovvie pressioni da parte dei gruppi economici, abbia cessato in questi ultimi decenni di svolgere il proprio compito di mediazione tra interessi contrapposti, e ancor di più quello di tutela delle componenti più deboli della società; né il fatto che la filosofia che ha ispirato le politiche di intervento sia stata quella di mettere il sistema privato in grado di esprimere tutte le sue capacità di sviluppo (una filosofia che ha finito col far assumere alla politica il ruolo di cinghia di trasmissione delle istanze che sono venute dalla “dimensione economica”, e quindi dai centri di potere economico). Così come non sorprende l’aumento delle sperequazioni nella distribuzione del reddito che si sono realizzate in tutti i paesi industriali avanzati e l’accentuazione delle tensioni sociali che possono essere viste come la logica conseguenza di questo ambiente culturale, prima ancora che politico.

Si possono, infine, capire le difficoltà che sta incontrando una cultura politica che ha perso i suoi caratteri progettuali e trova sempre più la sua legittimazione nell’intreccio con gli interessi economici. Una politica dunque da un lato sempre meno autonoma e quindi sempre meno capace di autonoma elaborazione e, dall’altro che, perdendo il proprio ruolo di rappresentanza, ha visto sgretolarsi la propria credibilità presso la società. Non c’è dubbio che può destare preoccupazione il fatto che lo svuotamento della politica, il suo essersi schiacciata sugli interessi forti, possa trovare un suo sbocco in un progressivo deterioramento della democrazia. Ma occorre anche sapere che per evitare che ciò accada, in particolare per quel che riguarda il nostro paese, il problema non è solo, o non è tanto quello di far concludere l’esperienza dei vari governi Berlusconi, quanto quello di superare la cultura e l’intreccio di interessi di cui il berlusconismo è solo una espressione, sia pure nella sua forma più grottesca. Bisogna, in altre parole, essere coscienti del fatto che, se si vuole evitare l’impoverimento dei sistemi democratici, è necessario avviarsi lungo un percorso il cui obiettivo non può che essere quello di stabilire nuovi e più forti collegamenti tra la dimensione economica e quella sociale e, di conseguenza, tra la politica e la società.

Una strada difficile e probabilmente non breve da percorrere, ma in qualche modo obbligata. Ripartire da una idea di interesse generale, costruire intorno ad essa un progetto, recuperare alla politica quel ruolo di ponte tra la società e gli interessi economici che aveva avuto in un passato non lontano, vuol dire infatti non solo preservare l’ambiente democratico ma anche, come ci ha insegnato molta buona teoria del passato, porre le basi per una nuova fase di sviluppo economico.

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