Chiudere i paradisi fiscali, limitare i derivati, rendere illegali le operazioni fuori bilancio delle banche. Tre misure urgenti, che il G20 a Washington non prenderà
L’incontro dei 20 Paesi con le maggiori economie del pianeta, convocato a Washington dal Presidente Bush alla presenza dei vertici delle istituzioni internazionali (Banca mondiale, Fmi, Wto) era stato pomposamente presentato nelle scorse settimane come un summit storico, come la nuova Bretton Woods. Un incontro il cui ruolo è stato progressivamente sminuito: indetto da un presidente uscente e con la popolarità più bassa della storia degli Usa, senza la presenza di quello entrante, soprattutto senza idee concrete su come uscire dall’attuale crisi finanziaria e dalla fase recessiva nella quale le nazioni del G8 sono ufficialmente entrate.
Delle misure concrete potrebbero invece essere implementate da subito dai governi occidentali. Tra le molte proposte avanzate negli ultimi tempi, tre potrebbero avere effetti positivi immediati e andare al cuore della crisi finanziaria.
In primo luogo, è necessario chiudere i paradisi fiscali. Non esiste nessuna ragione economica per permetterebbe a queste giurisdizioni di proseguire con le loro pratiche economiche dannose. Come misura immediata, i governi occidentali dovrebbero bloccare ogni operazione da e per i paradisi fiscali, e impedire che le imprese dei propri Paesi abbiano filiali o controllate in questi territori. Per evitare fenomeni di triangolazione, occorre poi cercare degli accordi a livello internazionale. Una prima misura in questa direzione consiste nel rafforzare il Tax Committee dell’Onu, trasformandolo in un organismo intergovernativo con il mandato e le competenze per combattere le pratiche fiscali nocive.
Come seconda misura, sono necessari dei limiti tassativi all’utilizzo dei prodotti derivati. Questi strumenti dovrebbero essere come minimo negoziati unicamente nelle piazze regolamentate, eliminando quindi l’enorme massa di derivati non regolamentati – Over The Counter – che hanno oggi raggiunto un nozionale di 600mila miliardi di dollari, pari a oltre 10 volte il Pil dell’intero pianeta. I derivati dovrebbero inoltre essere consentiti unicamente come strumento di copertura dei rischi (hedging) ovvero prevedere l’obbligatoria consegna del sottostante. In molti casi, è addirittura possibile ipotizzare dei meccanismi finanziari alternativi, che renderebbero del tutto inutile il ricorso ai derivati.
Prendiamo un esempio: i difensori dei derivati segnalano come questi siano necessari perché un’impresa che importa o esporta possa coprirsi dai rischi di cambio e dalla volatilità tra valute. In primo luogo, l’enorme ammontare di attività speculative legate ai derivati è proprio una delle cause fondamentali di tale volatilità. In secondo luogo, un sistema di cambi fissi, quale quello previsto dalla conferenza di Bretton Woods del 1944 e in vigore fino all’inizio degli anni ’70, ridurrebbe drasticamente tale rischio. Ancora, l’introduzione di un’imposta sulle transazioni valutarie, nello spirito della Tobin Tax, permetterebbe di contrastare le stesse attività speculative e di abbattere i rischi di cambio. Un discorso analogo potrebbe essere ripetuto per molte altre tipologie di derivati, il cui ruolo è in ogni caso diventato quasi esclusivamente speculativo. Con una battuta, l’argomento di chi continua a sostenere che i derivati hanno anche un ruolo positivo suona come un tentativo di non criminalizzare tutti i prodotti derivati per l’utilizzo che viene fatto del 99% di loro.
La terza proposta riguarda la necessità di dichiarare illegali tutte le operazioni fuori bilancio delle banche. Non ha senso stabilire dei quadri di regolamentazione e degli standard per la rendicontazione, quando nello stesso momento è permesso alle istituzioni finanziarie di eluderle attraverso operazioni fuori bilancio, ad esempio mediante la creazione di società veicolo registrate in qualche paradiso fiscale e tramite le corrispondenti cartolarizzazioni.
Le banche, come tutte le altre imprese multinazionali, dovrebbero inoltre essere obbligate a riportare nei propri bilanci i dati economici e finanziari suddivisi in ogni Paese in cui operano (country by country reporting) e non unicamente in forma aggregata per macroregione come avviene oggi. Una misura che da sola permetterebbe un decisivo salto di qualità nella lotta contro i paradisi fiscali, la corruzione, l’evasione fiscale e la fuga di capitali.
Si tratta di primi provvedimenti urgenti, che avrebbero dovuto essere approvati prima, o almeno in parallelo con i giganteschi piani di salvataggio messi a punto dagli esecutivi degli Stati Uniti e dei Paesi europei. Senza tali provvedimenti, gli stessi piani di salvataggio sono serviti unicamente per tappare le falle finanziarie delle banche che più si erano lanciate in operazioni azzardate e speculative, scaricando il costo di tali operazioni avventate sull’insieme dei cittadini, senza restituire fiducia al sistema e senza rimettere in moto il circuito del credito e l’economia.
Oggi tutti parlano della necessità di regolamentare la finanza e i mercati, dell’urgenza di una riforma della governance globale, ma al di là delle dichiarazioni di principio non si vedono proposte operative. In questo quadro colpiscono le dichiarazioni dei vertici del Fondo Monetario Internazionale, che vorrebbero avocare a sé il ruolo di timoniere di queste riforme. Lo stesso Fmi che dovrebbe al contrario sedere sul banco degli imputati, essendo uno dei maggiori responsabili dell’attuale situazione, dopo decenni di politiche neoliberiste fondate sulla necessità di lasciare mano libera ai mercati e di abbattere qualunque controllo sui flussi di capitali.
In questo contesto, il G20 di Washington si situa non come l’avvio di una “nuova Bretton Woods”, ma al contrario come un ultimo disperato tentativo di salvare le fondamenta di un sistema economico e finanziario che si è dimostrato nocivo e fallimentare.
I governi occidentali dovrebbero mostrare la lungimiranza e il coraggio di rompere con il recente passato. La stessa gravità della crisi rappresenta un’occasione storica per mettere in piedi tale processo, e per andare oltre un improbabile G20 e un’impresentabile guida del Fmi in tale processo. E’ giunta l’ora di una radicale riforma tanto delle regole che guidano la finanza quanto della governance. Una trasformazione che deve prevedere l’implementazione immediata di alcune misure per arrestare le manifestazioni più nefaste dell’attuale crisi e il lancio di un processo democratico e partecipato per una sostanziale riforma dell’architettura finanziaria internazionale.