Secondo la Guardia di finanza, in Sicilia 120 aziende sono state sequestrate tra il 2012 e i primi sei mesi del 2013. Tra i settori a rischio la grande distribuzione, energie rinnovabili e il gioco d’azzardo
Nelle scorse settimane abbiamo assistito a un appello piuttosto singolare, rivolto da un autorevole soggetto istituzionale, il procuratore aggiunto del Tribunale di Palermo, ai vertici dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra, cioè Riina, Provenzano, Messina Denaro.
In estrema sintesi, questi ultimi venivano invitati a recidere i legami con i loro politici di riferimento. “Voi siete sommersi di ergastoli e loro la fanno sempre franca, si arricchiscono, sono tutti a piede libero” (1).
L’appello prende spunto dall’esito del processo sulla trattativa stato-mafia che, come è noto, ne ha messo fortemente in dubbio l’esistenza. La lettura dell’appello, comunque, stimola a ragionare sullo stato attuale di Cosa nostra, con particolare riferimento al tempo della recessione in cui si trova a operare.
Dunque, si è certo sbiadita l’attenzione mediatica della metà degli anni ’90. Ma, l’attuale azione repressiva viene giudicata continua e incisiva, così come apprezzabili appaiono le reazioni e le iniziative della società civile. La struttura mafiosa sembra iniziare a perdere consenso grazie allo sviluppo della cultura della legalità tra la popolazione siciliana, meno propensa, rispetto al passato, ad accettare vessazioni e soprusi. A queste valutazioni rassicuranti se ne contrappongono altre intrise di preoccupazione. Cosa Nostra ha sostituito la sua struttura unitaria con un modello pulviscolare e manifesta una specifica attitudine a ricostruire le sue articolazioni (mandamenti, famiglie), a gestire le estorsioni sul territorio, a organizzare il traffico di droga; le più recenti operazioni di polizia dimostrano come i capi storici attualmente in carcere vengano subito rimpiazzati da gregari.
Tre notazioni, in aggiunta, pesantemente negative. Sono numerosi i personaggi mafiosi, scarcerati per vizi formali, che tornano a passeggiare su quelle stesse vie – ci ricorda Luca Tescaroli, uno dei magistrati più impegnati nella lotta alla mafia – dove avevano esercitato il loro potere. E questo determina disorientamento tra i cittadini, perdita di credibilità dello Stato, caduta di garanzia per la collettività (2).
Poi, una questione di tecnica procedurale: il reato di associazione di tipo mafioso ha perduto la sua capacità deterrente. Rito abbreviato, istituto premiale di liberazione anticipata, difficoltà di doppie condanne per lo stesso reato hanno complessivamente alleggerito il rischio di pena ma soprattutto la sua durata.
Terza e ultima considerazione scontata: sul versante mediatico si assiste a un crescente silenzio, a livello nazionale, sulle attività criminali delle organizzazioni a eccezione dei processi che coinvolgono appartenenti alle istituzioni.
Qualche dato sull’attuale dimensione “quantitativa” di Cosa nostra. Un esercito, tra scarcerati eccellenti, vecchi boss e picciotti, stimato in duemila affiliati. Patrimoni ingenti (aziende e fondi all’estero) gestiti ancora dai boss. Buchi nei controlli bancari che agevolano il riciclaggio e l’inserimento nell’economia attraverso il circuito degli appalti e la compartecipazione ad aziende oltre ai business tradizionali (droga e racket).
La principale attività, oltre il traffico di stupefacenti e il settore delle opere pubbliche, dove i clan pretendono percentuali (circa il 2% secondo la Dia) sull’importo complessivo di ogni appalto, resta quella estorsiva che, nel caso delle grandi imprese, viene dissimulata dall’imposizione di forniture, dalla forzata assunzione di manodopera prescelta dal clan, oppure dall’imposizione di imprese operanti in regime di subaffidamento. La città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo.
I dati del Comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo parlano di 120 aziende sequestrate tra il 2012 e i primi sei mesi del 2013 per un valore di un miliardo di lire.
È possibile abbozzare una mappa delle infiltrazioni mafiose nell’economia siciliana: grande distribuzione, energie rinnovabili, settore turistico-alberghiero, edilizia, trasporti, commercio e servizi, gioco d’azzardo. Ultime start-up: fiori e cereali.
Due sistemi, ci viene spiegato dalla GdF, per realizzare l’infiltrazione: agire attraverso prestanome (giovani e anziani) – e questo nel caso di ditte individuali o società di capitale a ristretta base azionaria e con capitale minimo iniziale. Ovvero, creando “imprese a partecipazione mafiosa”: imprese cioè, a volte, con complessa struttura societaria, costituite legalmente da un normale imprenditore che già all’inizio dell’attività, o anche dopo, instaura rapporti di cointeressenza o di compartecipazione con esponenti mafiosi. E questo sia per ottenere finanziamenti di origine illecita, sia per affermarsi ed espandersi sul mercato, grazie alla forza di intimidazione propria dell’organizzazione mafiosa e al controllo che questa esercita sul territorio (3).
Una navigazione tranquilla insomma nel mare della crisi che invece si accanisce sull’economia siciliana: debolezze strutturali, cronica assenza di infrastrutture, mancanza di investimenti. Con effetti devastanti sul mercato del lavoro e sulla coesione sociale assicurata solo dall’estensione del lavoro nero: trecentomila lavoratori invisibili – secondo stime della Cgil Sicilia – in assenza quasi totale di controlli cui corrisponde l’evasione fiscale di un miliardo. Un territorio ideale per affermare tacitamente la supremazia della filosofia mafiosa: mafia in Sicilia, comunque vada, è garanzia di equilibrio e lavoro.
Torniamo all’”incipit” iniziale. Nella singolarità dell’appello individuiamo un’ulteriore ipotesi non rassicurante sul rapporto tra mafia e politica in uno stato di crisi. Il sistema politico, in questi tremendi anni di recessione, pur trascurando tanti altri soggetti, si è guardato bene evidentemente dall’abbandonarla. Ma non è più il sistema politico di una volta. Per cui forse, paradossalmente, sarà la mafia a rendersi autonoma abbandonando i politici.
1 L’appello di Teresi ai padrini. Rompete l’accordo con i politici, “La Repubblica”, Palermo, 16 ottobre 2013. 2 L. Tescaroli, Cosa nostra al tempo della recessione, “La Repubblica” , Palermo, 15 agosto 2013. 3 S. Palazzolo, Energia, edilizia e market: la mafia spa vale un miliardo, “La Repubblica”, Palermo, 15 ottobre 2013.