Top menu

La flex-security dell’Agenda Monti

La rotta d’Italia. La coalizione di Mario Monti ha in agenda una politica del lavoro fondata su una flex-security a cui mancano troppe cose: il sostegno ai redditi, la formazione, il rilancio della domanda, le relazioni sindacali

L’“Agenda Lavoro” delle liste “con Monti per l’Italia – il titolo esteso è “Linee di politica di lavoro e welfare e di riforma della Amministrazione pubblica del programma di Governo” – è un approfondimento dell’Agenda Monti in tema di riforma del mercato del lavoro, delle politiche di welfare e della pubblica amministrazione e costituisce una parte centrale del programma elettorale di Mario Monti.

Vediamo la proposta di riforma del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Vista la subitanea adesione di Pietro Ichino al progetto politico di Mario Monti, la proposta di riforma contenuta in questo agile programma elettorale va nella direzione della combinazione di flessibilità e garanzie nota come flex-security, definita nel documento come un sistema che coniuga “flessibilità delle strutture produttive e politiche attive per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori”.

Si tratta, com’è noto, di un sistema di regolazione del rapporto di lavoro, delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro, attive e passive, legato al modello danese, benché sarebbe decisamente più corretto fare riferimento a un modello nord-europeo, visto che anche in Olanda si è sviluppato nel corso degli anni un sistema analogo.

La flessibilità asimmetrica

Il primo punto da sollevare riguarda l’assenza nel documento di una specificazione precisa dello schema di flex-security cui si fa riferimento. Non esiste un modello univoco di flex-security. I due modelli più conosciuti e celebrati, il danese e l’olandese, presentano soluzioni istituzionali differenziate. La versione danese riconosce all’autorità pubblica un ruolo determinante e si discosta sostanzialmente dal modello olandese, in cui il coinvolgimento di organizzazioni private, le agenzie di lavoro, e di fattispecie contrattuali atipiche giocano un ruolo di rilievo nell’architettura del sistema. Nella versione danese della flex-security un ruolo centrale è giocato dallo stato che realizza una serie di politiche attive del lavoro volte a migliorare l’occupabilità dei lavoratori (corsi di formazione, orientamento). Nella versione olandese, invece, la flex-security è consistita in un processo di normalizzazione delle forme contrattuali atipiche che, sostanzialmente, godono delle stesse tutele dei contratti a tempo indeterminato.

È ovvio che un documento elaborato per una campagna elettorale, con obiettivi anche di propaganda, non può entrare eccessivamente nel dettaglio. Tuttavia riferirsi genericamente alla necessità, per la realizzazione del progetto di flex-security, di una “riorganizzazione e irrobustimento dei servizi all’impiego pubblici e privati” accentua l’ambiguità del documento in merito a una maggiore o minore predilezione per il modello danese rispetto a quello olandese. Non si tratta di un aspetto marginale, in quanto il ruolo giocato dall’autorità pubblica e dagli attori privati è diverso nei due assetti istituzionali.

Oltre alla flex-security, il secondo fattore enfatizzato dal programma Monti è un esplicito richiamo alla necessità di un ridimensionamento della contrattazione collettiva a vantaggio della contrattazione aziendale, definita nel testo contrattazione in deroga, anche in merito alle norme che regolano il recesso del rapporto di lavoro.

Esiste una letteratura sterminata sulla flex-security. Gli studiosi concordano in generale nell’affermare che il successo del modello di flex-security, indipendentemente dal contesto nazionale in cui si è sviluppata, dipende dall’attivazione di complementarità istituzionali, ovvero dalla compresenza di una serie di istituzioni che, interagendo strettamente fra di loro, rafforzano l’efficienza e l’efficacia della propria azione. Senza questa interazione virtuosa, gli effetti dell’operare di ciascuna istituzione risulterebbero notevolmente depotenziati.

I fattori istituzionali importanti sono molteplici. Innanzitutto, è necessaria l’azione congiunta di tre capisaldi: contenuta protezione dei posti di lavoro, una rete di sussidi di disoccupazione e di servizi alle persone e alle famiglie generosa ed efficiente, una serie di politiche attive del lavoro che faciliti il reinserimento dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Si tratta di una combinazione di pronunciata flessibilità numerica esterna, che faciliti la possibilità per i datori di lavoro di aggiustare il livello di occupazione sulla base dell’andamento del ciclo economico, e di una serie di politiche attive e passive del lavoro che assecondino i processi di mobilità dei lavoratori da un posto di lavoro all’altro. In aggiunta a questi tre elementi, alcuni autori (Blanchard fra gli altri) hanno evidenziato la necessità di un clima di fiducia fra le parti sociali e la pubblica amministrazione e l’importanza di un coordinamento nella contrattazione salariale.

Infine, affinché la complessa combinazione dell’azione di questi fattori istituzionali sortisca effetti positivi è necessario un quadro macroeconomico dinamico, che favorisca i processi di creazione di posti di lavoro. Senza questa condizione, che lubrifica gli ingranaggi di questa complessa interazione fra istituzioni, le pratiche di flex-security rischiano di diventare estremamente onerose e finanziariamente insostenibili.

I limiti della flex-security

Pur essendo innegabile il successo di questo sistema occupazionale in paesi come la Danimarca e l’Olanda, la flex-security non ha mancato di suscitare alcune perplessità. Benché non esista un’evidenza empirica robusta, è chiaro che un sistema del genere non favorisce l’attaccamento dei lavoratori al posto di lavoro. Questo potrebbe generare, soprattutto per le fasce di lavoratori meno qualificati, bassi livelli di investimento in capitale umano (generale e/o specifico) da parte dei lavoratori e dei datori di lavoro, a detrimento della flessibilità interna, funzionale ed organizzativa, che per le imprese, soprattutto quelle medio-grandi, costituisce un fattore strategico fondamentale. Come la letteratura istituzionalista, ormai trent’anni fa, ha osservato, fra flessibilità interna e flessibilità numerica esiste un trade-off: l’enfasi sulla flessibilità numerica può dare luogo a un indebolimento della flessibilità interna delle imprese.

Ricapitolando: flessibilità numerica, politiche attive e passive del lavoro, un quadro macroeconomico favorevole, relazioni industriali improntate a un consociativismo nord-europeo e fiducia fra gli operatori del mercato del lavoro costituiscono i pilastri di un sistema di flex-security. Di queste complementarità istituzionali l’agenda Monti sul mercato del lavoro sembra essersi dimenticata.

Il documento enfatizza la necessità di flessibilità sia nella sezione dedicata alla riforma del mercato del lavoro, sia nella parte dedicata ai provvedimenti per promuovere l’occupazione giovanile, quando si dice che “occorre rendere flessibile il rapporto di impiego anche nelle parti più avanzate e terminali della carriera, in modo che il peso della flessibilità venga ripartito più equamente fra giovani e anziani.” Si tratta di un’enfatizzazione che non può mancare di suscitare perplessità, visto che nel 2008 l’Italia, secondo l’Ocse, presentava un indice generale di protezione dell’occupazione inferiore a quello di Francia e Germania e un indice di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato contro i licenziamenti individuali di poco superiore a quello della Danimarca e nettamente inferiore a quello dei due paesi leader economici europei.

Se si considera che dal 2008 sono stati presi ulteriori provvedimenti legislativi in tema di flessibilità numerica, forse essa non dovrebbe apparire come una priorità nell’agenda politica sul lavoro.

Per quello che riguarda gli interventi sugli altri fattori che stanno alla base della flex-security, l’Agenda Monti risulta alquanto insoddisfacente. In merito alle politiche attive del lavoro, il documento fa un riferimento generico alla necessità di attuare “un vero e proprio salto di qualità nel campo delle politiche attive del lavoro” e, in maniera ancora più sfumata, accenna alla necessità di riequilibrare la spesa sociale.

Della necessità di riformare, rendendolo più universale, il sistema di sostegno al reddito dei disoccupati, non si fa cenno. Per non parlare dell’assenza nel documento della necessità di una politica fiscale che rilanci l’economia, e dell’urgenza di un sistema di relazioni industriali più cooperativo e coordinato. Il documento, anzi, sembra auspicare un ridimensionamento della contrattazione centralizzata, a vantaggio di quella decentrata.

Si tratta di lacune estremamente gravi, sia per la rilevanza che la flex-security riveste in questa proposta politica, sia perché per rendere questi fattori funzionali al progetto della flex-security, in Italia, si rendono necessari interventi radicali sulla composizione e, probabilmente, sul livello della spesa pubblica. Un programma elettorale non può permettersi di trascurare fattori di questa consistenza. Si pensi, ad esempio, che un paese come la Danimarca, con una popolazione di circa 5,5 milioni di abitanti, ha speso nel 2010, per le politiche del lavoro, circa il 60% di quanto ha speso l’Italia, un paese con oltre 60 milioni di abitanti. Si tratta rispettivamente del 3,4% e dell’1,8% del Pil. L’allineamento alla Danimarca, assimilabile a una sorta di benchmark virtuoso, implicherebbe un investimento in politiche del lavoro molto gravoso.

Per quello che riguarda il quadro macroeconomico, il discorso è più complesso. Un recente contributo di Blanchard e Leigh ha fatto sorgere il sospetto che le politiche di contenimento della spesa pubblica abbiano contribuito ad aggravare la spirale recessiva più di quanto si ritenesse. Krugman, in un recente lavoro, ha auspicato l’adozione di politiche fiscali espansive per accelerare la fuoriuscita dalla crisi. Per rilanciare l’occupazione, pertanto, si rende necessaria l’adozione di politiche keynesiane per stimolare la domanda di lavoro. E’ chiaro che in un paese come l’Italia, in cui lo stock di debito pubblico ha superato il 120% del Pil, l’adozione di politiche fiscali espansive è indubbiamente problematica, ma al momento non sembrano esservi altre strade, a meno che non si voglia rinunciare a un rilancio dell’occupazione.

Conclusioni

Vista l’assenza di considerazioni su aspetti fondanti del sistema occupazionale legato a una qualche forma di flex-security, e la forte sottolineatura della necessità di rafforzare la flessibilità numerica, sorge il legittimo sospetto che la flex-security nei programmi elettorali dell’agenda Monti costituisca poco più di un artificio retorico sotto il quale si maschera la volontà di rafforzare il potere dei datori di lavoro nella gestione in entrata, ma soprattutto in uscita, dei lavoratori nelle imprese. La mancanza di riconoscimento della rilevanza di politiche dal lato della domanda per migliorare la performance del mercato del lavoro fa ritenere che prevalga, presso gli estensori del documento, una concezione mainstream all’analisi delle dinamiche economiche. Si tratta di un approccio assolutamente accettabile per una forza di centro-destra. Ma non si può mancare di manifestare notevoli perplessità, se le forze che si riconoscono in questo documento si apprestano, come sembra, ad allearsi, dopo le elezioni, ai partiti del centro-sinistra.