Specchio della diseguaglianza economica è quella politica. Con l’abbandono dei partiti, in particolare di sinistra, ormai dediti alla rappresentanza occasionale, dell’attività di fidelizzazione degli elettori. Alle radici del populismo, ma anche dei “gilet jaunes” e delle sardine.
Da qualche anno a questa parte – era ora! – il tema della disuguaglianza socioeconomica è tornato all’ordine del giorno. Si è accumulata una letteratura imponente, su cui internazionalmente spicca il contributo di Thomas Piketty, ma alla quale in Italia hanno offerto contributi di pregio Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Mario Pianta, Michele Raitano e altri ancora. Un’attività di riflessione e sensibilizzazione sul tema la sta svolgendo il Forum delle disuguaglianze e delle diversità. Ultimamente un’assise del Pd ha dato la parola a Fabrizio Barca, che è tra gli animatori del Forum, il quale a questo argomento ha dedicato la sua relazione. Per sua natura, il capitalismo produce disuguaglianze socioeconomiche, e anzi vive di esse, così come di sfruttamento e oppressione. Ma lo Stato e la politica hanno rinunciato ad ogni credibile azione di contrasto. Come avevano fatto con discreti risultati, ancorché imperfetti, nella lunga stagione del dopoguerra.
Se non che, quantunque ottenga assai meno attenzione, non meno rilevante è l’incremento della disuguaglianza politica, la quale, a rifletterci sopra, è tanto effetto della disuguaglianza economica quanto suo fondamentale presupposto.
Mentre vi sono ceti che dispongono di molteplici possibilità di farsi valere nell’arena politica, vi sono segmenti larghissimi di società palesemente indifesi, ovvero privi di rappresentanza politica, politicamente diseguali e abbandonati alla disuguaglianza economica, che ha pure un valore politico. La responsabilità è principalmente dei partiti. I quali, forse perché convinti della superiorità delle tecnologie comunicative, hanno adottato una tecnica di rappresentanza che potremmo definire «occasionale». Puntano ad attrarre gli elettori sfruttando vuoi la capacità seduttiva dei loro leader, vuoi circostanze contingenti: un episodio criminale, un’ondata di sbarchi, lo scandalo suscitato da qualche indagine giudiziaria e via di seguito.
Convertiti alla rappresentanza occasionale, i partiti hanno del tutto revocato l’attività di fidelizzazione degli elettori, ovvero di raggruppamento e manutenzione democratica che un tempo svolgevano capillarmente: istituendo intorno a una concezione del mondo e a un progetto di società condivisi appartenenze collettive robuste e temibili, eventualmente da mobilitare. Con queste modalità i partiti socialisti e comunisti riducevano la disuguaglianza politica e contrastavano i potentati economici. Pure i partiti moderati e conservatori, per ragioni di concorrenza, attenuavano la disuguaglianza politica, benché avvalendosi di tecniche diverse, sfruttando cioè le appartenenze religiose, quelle clientelari e quant’altro. Anch’essi, in maniera diversa, erano in grado di contrastare i potentati economici e di difendere i loro elettori. In buona sostanza: i partiti hanno sconfessato l’impegno che si erano assunti con l’istituzione del suffragio universale, che era stato introdotto appunto con la promessa di compensare le disuguaglianze istituite dal mercato.
È in coerenza cambiato il significato del voto. Sempre meno è gesto di conferma di comune appartenenza, compiuto in solido con altri, sempre più è segno di preferenza individuale per un leader e una squadra di governo, i quali potranno liberamente interpretare la somma dei consensi espressi uti singuli da chi li ha votati. Ove non bastasse, un altro colpo all’uguaglianza politica l’ha inferto l’emarginazione dei sindacati. Frutto del declino dell’occupazione e della precarizzazione del lavoro, che hanno spuntato quell’arma formidabile contro la disuguaglianza politica che era lo sciopero. Ma pure del rifiuto dei partiti, inclusi quelli di sinistra, d’interloquire con essi.
Le disuguaglianze s’intrecciano e si cumulano. Le vittime della disuguaglianza politica sono oggidì inermi di fronte alla disuguaglianza economica, la quale, com’è noto, a sua volta si cumula con la disuguaglianza informativa e culturale (in qualche modo anch’essa curata a suo tempo dai partiti). A trarne beneficio sono i partiti populisti. Non più classe e tanto meno demos, ma semmai ridotti a plebs orfana dei suoi antichi tribuni, i cosiddetti losers, secondo una teoria molto diffusa, mostrerebbero un’inquietante propensione a prestare ascolto alle grossolane semplificazioni dei paladini dell’ethnos.
Quant’è attendibile questa teoria? Forse meno di quanto sostengano coloro che tengono a squalificare i losers. Confermata o meno che sia la teoria, in tutto o in parte, diffidenza, risentimento, rancore, dei losers e l’eventuale loro adesione al populismo non sarebbero comunque prova della loro inaffidabilità politica e della loro inadeguatezza culturale. La loro potrebbe essere per contro una tattica di autodifesa, un modo – forse l’unico possibile, insieme all’astensione – per protestare per come funzionano i regimi democratici e per sanzionare i loro ceti dirigenti. Quantunque non sia da escludere la possibilità che il voto populista porti seco la conversione almeno di alcuni all’intolleranza e al razzismo.
Tutto questo per dire che senza combattere la disuguaglianza politica è piuttosto improbabile tanto combattere la disuguaglianza economica, quanto contrastare il populismo. I tre fenomeni sono legati. Ricordare il tema della disuguaglianza economica e dell’ingiustizia è altamente meritorio, specie se serve a sensibilizzare e sollevare le vittime, che molti sintomi danno per assuefatte e rassegnate. Ma la lotta alla disuguaglianza politica richiede anche altre armi. Diverse da quelle improvvisate ultimamente dai partiti. I quali saranno forse vittime di processi che non controllano, ma nulla hanno fatto per sottrarvisi. Salvo opportunisticamente introdurre nuovi dispositivi di partecipazione fittizi come le primarie o assai complessi come le procedure deliberative, onde lenire gli effetti della loro trasformazione. Solo che le primarie non sono un rimedio all’individualizzazione del voto e semmai un’aggravante. Mentre dispositivi quali la deliberazione in partenza sono fuori misura per i ceti meno scolarizzati e meno informati e non sembrano nemmeno soddisfare granché i ceti istruiti. Visti i limiti opposti dalla politica alle pratiche deliberative, se questi ceti dapprincipio potevano nutrire qualche aspettativa e profittare dell’occasione loro offerta per farsi sentire, alla fine ne hanno tratto unicamente motivi di delusione.
Anche per chi potrebbe giovarsene maggiormente, i partiti di sinistra, la disuguaglianza politica è divenuto un concetto incomprensibile. Quand’è forse il tema preminente di vasti movimenti popolari quali gli indignados, i gilets jaunes, le sardine e altri ancora. Grazie ai quali chi non trova rappresentanza emette segnali di sofferenza. Sono segnali e come tali vanno apprezzati e sarebbe un grave errore pretendere da essi altro da quel che sono. Ma intanto la disuguaglianza politica è un’enorme montagna tutta da scalare e c’è da scoprire in che modo sia possibile.