Il pensiero federalista contemporaneo dovrebbe darsi obiettivi più alti per costruire un movimento realmente egemonico. Un’analisi a partire dal paper di Guido Montani
In un suo recente paper, Guido Montani – professore di international political economy all’Università di Pavia ed ex segretario generale e presidente del Movimento Federalista Europeo – analizza da una prospettiva federalista il recente scontro tra la Grecia ed i suoi creditori e le sue implicazioni per il futuro dell’integrazione europea ed in particolare dell’unione monetaria. Nella prima parte del paper, Montani traccia un quadro brutalmente franco dell’Europa realmente esistente. «Il drammatico Eurosummit del 12-13 luglio – scrive Montani – ha segnato un punto di svolta nella storia dell’integrazione europea»: minacciando di espellere la Grecia dall’unione monetaria, quel “partito transnazionale” che comprende la Germania ed i suoi satelliti economici ha infranto il patto originario dell’unione monetaria: «Oggi l’unione monetaria non è più considerata irreversibile», nota Montani. «Se la Grecia e gli altri paesi “spendaccioni” possono essere cacciati dalla zona euro, l’unione monetaria diventa qualcosa di simile ad un sistema di cambi fissi, con l’unica differenza che è più difficile e costoso uscirne».
Montani sembra condividere l’opinione di Yanis Varoufakis, secondo cui la Grexit faceva parte di un progetto più ampio teso a trasformare l’eurozona in un’unione più ristretta di paesi core di matrice ordoliberale – la cosiddetta Kerneuropa – attraverso l’espulsione di quei paesi refrattari al riorientamento radicale richiesto dal modello tedesco (con l’obiettivo anche di disciplinare quelle nazioni che potrebbero essere tentate di sfidare le regole, vecchie e nuove).
Montani passa poi a spiegare come questo sia il riflesso dell’ascesa della Germania a potenza egemonica (o meglio semi-egemonica) in seno all’Unione, al punto che ormai possiamo affermare che «esiste una nuova questione tedesca in Europa». L’analisi di Montani si basa in buona parte su quella avanzata da Hans Kundnani, research director dell’European Council on Foreign Relations, nel suo libro The Paradox of German Power:
“Tra il 1871 e il 1914 la Germania era così grande e forte che nessun paese poteva compensare il suo potere in Europa. Allo stesso tempo, non era abbastanza potente per essere una potenza egemone, in modo da imporre la propria volontà su tutti gli altri. Questo era il nucleo della “questione tedesca”: lo storico Ludwig Dehio ha descritto la posizione della Germania come “semi-egemonia”.
Kundnani sostiene che il successo economico della Germania in seguito all’introduzione dell’euro ha avuto l’effetto di alterare profondamente la psiche tedesca, contribuendo all’affermazione di una nuova forma di nazionalismo economico, l’“Exportnationalismus”, basato sulla presunta superiorità del modello economico iper-mercantilista tedesco (Modell Deutschland). La conclusione di Kundnani – condivisa a grandi linee da Montani – è che «oggi la Germania si trova in una posizione semi-egemonica molto simile a quella descritta da Ludwig Dehio. La differenza è che il piano egemonico in Europa non è più geopolitico ma geoeconomico».
Nella sezione successiva del paper, Montani analizza la dottrina economica dominante in Germania, «profondamente radicata nei principali partiti politici e nell’opinione pubblica»: l’ordoliberalismo. Montani spiega che l’ordoliberalismo, «basato sul netto rifiuto delle politiche di gestione della domanda di stampo keynesiano», può considerarsi una variante dell’economia dell’offerta (supply-side economics) della scuola neoclassica. Montani ci ricorda come l’ideologia ordoliberale abbia profondamente influenzato sia l’architrave istituzionale dell’eurozona – le limitazioni al disavanzo/debito pubblico degli Stati membri imposte dal patto di stabilità e crescita; l’indipendenza della BCE dai governi nazionali e dalle stesse istituzioni europee; l’insistenza sulla stabilità dei prezzi, ecc. – sia la risposta che l’eurozona (su pressione della Germania) ha dato alla crisi. In generale, scrive Montani, l’atteggiamento della Germania nei confronti dei paesi in crisi come la Grecia «rivela la concezione ordoliberale dell’eurozona», secondo cui l’euro non è altro che «una specie di gold standard… una accordo monetario per la stabilità dei prezzi e i tassi di cambio, nulla di più».
Infine, Montani nota come le posizioni ordoliberali dell’establishment politico-monetario tedesco (ed in particolare della Bundesbank, considerato il tempio dell’ortodossia ordoliberale) non si siano affatto ammorbidite col tempo ma al contrario siano diventate sempre più inflessibili. Per i politici tedeschi della generazione di Helmut Kohl l’impossibilità di un’unione economia e monetaria senza unione politica era evidente. Oggi, invece, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ritiene che «l’unione monetaria possa funzionare benissimo senza unione politica». In altre parole, l’architettura disciplinare di Maastricht, ulteriormente rafforzata in seguito alla crisi, è più che sufficiente. Montani sostiene che «questa opinione sembra essere ampiamente condivisa dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble».
Alla luce del tetro ma indubbiamente realistico scenario dipinto da Montani, ci si sarebbe aspettati di trovare nella seconda parte del paper – quella dedicata alle proposte – una riflessione altrettanto lucida sulle implicazioni di questi sviluppi per le prospettive di integrazione europea. Invece vi troviamo la solita lista di proposte trite e ritrite finalizzate al «completamento dell’unione monetaria» e alla «costruzione di un’unione federale sovranazionale»: un bilancio federale, un’autorità fiscale centrale, una politica economica sovranazionale che eviti squilibri eccessivi nelle bilance dei pagamenti degli Stati membri, l’emissione di titoli di debito federali, un governo democratico europeo, ecc.
Ad essere deludenti non sono tante le proposte di Montani in sé – che a grandi linee sono condivisibili – quanto l’assenza di qualsivoglia strategia politica. Montani non ci dà nessuna indicazione su come ritiene si possano implementare le sue nobili proposte, anche e soprattutto alla luce del fatto che la tendenza europea – descritta così accuratamente da lui stesso nella prima parte del paper – sembra muoversi nella direzione diametralmente opposta a quella da lui auspicata. Piuttosto, Montani sembra essere animato da una fiducia pseudo-materialistica nel fatto che prima o poi, a forza di udirci cantare le lodi del federalismo, gli ordoliberali rinsaviranno e «accetteranno che per garantire la crescita, la piena occupazione e la coesione sociale nel continente serve una gestione della domanda aggregata a livello europeo» e che «tutti gli Stati membri dell’eurozona hanno un interesse comune nell’abbandonare un sistema decisionale che causa rivalità tra i paesi». L’ottimismo di Montani è toccante, ma purtroppo settant’anni di pensiero federalista dimostrano il contrario: in politica non basta ripetere ad nauseam che qualcosa è possibile e auspicabile perché essa si realizzi. Inoltre, tutta l’analisi di Montani si basa sull’assunto che «senza l’UE e l’euro, la Germania non sarebbe altro che una vecchia potenza europea in declino», il che è tutto da dimostrare.
Il punto è che ci troviamo in una situazione in cui, come già detto, le tendenze storiche sono fortemente avverse alla causa federalista e in cui uno shock esogeno, come per esempio una rottura incontrollata dell’UE e/o dell’unione monetaria, rischia di far finire il federalismo nel dimenticatoio della storia. In uno scenario di questo tipo, l’approccio “illuminista” – fare appello alla logica, alla ragione e alla solidarietà europea – è destinato al fallimento certo. Di fronte ad una situazione così drammatica, quella che serve è una visione strategica.
È nell’interesse del federalismo democratico sostenere l’attuale processo di “federalismo dall’alto”, centralizzante ed autoritario, portato avanti dall’establishment europeo e dalla Germania? È realistico pensare, come fa Montani, che sia «possibile… raggiungere un compromesso tra ordoliberalismo tedesco e keynesismo», in tempi umani si intende? Veramente pensiamo che, nel futuro prossimo, sia possibile intaccare dall’esterno la cultura ordoliberale tedesca, così profondamente radicata nella società di quel paese? E se la risposta è sì, a chi dovremmo rivolgere i nostri appelli, alle élite tedesche o ai suoi cittadini? Più in generale, pensiamo veramente che una superpotenza globale come la Germania possa essere indotta a cambiare la sua pluridecennale strategia semi-egemonica (e per certi versi neocoloniale) facendo semplicemente appello alla ragione e alla logica? E se invece fosse nell’interesse della causa federalista prendere atto del fatto che le condizioni non sono mature per il tipo di unione fiscale e politica che l’Europa si merita, e fare un passo indietro nel processo di integrazione, per esempio reclamando una maggiore flessibilità fiscale a livello nazionale (come suggerito da Philippe Legrain)? Sono queste le domande che i federalisti di oggi dovrebbero porsi e mettere al centro del dibattito pubblico. Continuare a ripetere le stesse formule di sempre, rinunciando a qualsivoglia prospettiva strategica, vuol dire arrendersi alla propria condizione di impotenza.
E se invece, cambiando del tutto prospettiva, il problema del federalismo contemporaneo non fosse quello di non essere abbastanza pragmatico ma di non essere abbastanza utopico? Parlando della necessità di aumentare il budget europeo, Montani suggerisce di portarlo dall’1 per cento del PIL dell’Unione europea al… 2-2,5 per cento. Con tutta la buona volontà, è difficile immaginare che si possa costruire un movimento intorno ad un obiettivo così modesto. In un certo senso, il federalismo di Montani è allo stesso tempo troppo idealistico per essere preso sul serio dall’establishment politico europeo e troppo pragmatico per ispirare i cittadini europei. Se proprio vogliamo parlare di federalismo, allora tanto vale puntare in alto e reclamare un’unione fiscale e politica per cui valga veramente la pena combattere, con un bilancio federale pari almeno al 10 per cento del PIL dell’Unione; trasferimenti fiscali tra paesi; un’autorità federale in grado di effettuare spesa in deficit, col sostegno attivo della BCE; ecc.
Comunque sia, a prescindere dalla strategia che si ritiene più opportuna, una cosa è certa: la cosa peggiore che possiamo fare in questo momento è rimanere impantanati nel guado di un “federalismo modesto” senza arte né parte.
Articolo pubblicato da eunews.it