La buona educazione/Paesi in difficoltà hanno inciso sulle proprie capacità produttive grazie a una maggiore spesa pubblica riservata all’istruzione
Message not delivered. I nostri Governi, così ligi nell’allinearsi ai diktat della dottrina dell’austerity, non si sono forse accorti che, almeno per quanto riguarda l’istruzione, gli economisti incredibilmente non chiedono tagli ma piuttosto investimenti e spesa pubblica. In più di qualche occasione, paesi fortemente in crisi sono riusciti a incidere efficacemente sulle proprie capacità produttive e di competizione attraverso un maggior investimento pubblico in istruzione (casi emblematici sono gli Stati Uniti degli anni 70 e la Finlandia ad inizio anni 90) e in generale la maggior parte degli economisti, anche i più ortodossi, ritengono il sistema di istruzione e la sua capacità di formare la forza lavoro un fattore essenziale dello sviluppo economico. Dando uno sguardo ai dati sulla spesa pubblica degli ultimi anni è chiaro che, ahinoi, in Italia (ma non solo) il messaggio non è stato recapitato. In Europa l’Italia è il paese che in assoluto spende per il sistema di istruzione, attraverso la spesa pubblica, la quota più piccola della ricchezza prodotta ogni anno (4,1% del Pil, il Paese che investe di più è la Danimarca 7% del Pil seguito dal Portogallo 6,8%, tanto per farsi un’idea). Questa quota, che avrebbe potuto aumentare anche solo grazie alla concomitante contrazione del Pil degli ultimi anni, si è ridotta a sua volta tra il 2009 (ho scelto questo anno perché è stato il momento di picco prima del declino) e il 2013 di 0,3 punti percentuali (passando dal 4,4 al 4,1).
Andando a vedere, invece, la quota di spesa pubblica complessiva dedicata all’istruzione la storia si fa ancora più triste, se possibile. Nel 2013 lo Stato dedicava all’istruzione l’8% delle risorse. In Europa sono i paesi Baltici a tenere il passo con una quota che raggiunge quasi il 16%, seguiti dal Portogallo con il 13,5% . Per venire più vicini a noi il Regno Unito spendeva il 12% e la Francia solo il 9,6% (per Spagna e Germania i dati, stranamente, non sono disponibili). Solo la Grecia faceva peggio di noi (7,6%). Tra il 2009 e il 2013, questa quota si è ridotta dell’11 %, la contrazione più consistente in Europa, Romania esclusa.
Ma di quanti soldi stiamo parlando? La spesa pubblica italiana nel 2013 si attestava a 818 miliardi di euro circa (ebbene sì! poco più della metà del Pil) di cui 65,5 destinati al sistema di istruzione (l’8% appunto). Tra il 2009 e il 2013 questo valore (espresso in termini nominali e quindi senza tenere conto dell’eventuale effetto della variazione dei prezzi) si è contratto del 9% passando da poco più di 72 miliardi di euro a 65,5 miliardi (in Europa hanno fatto peggio di noi solo Romania, Grecia e Portogallo). Si potrebbe facilmente associare questa dinamica ad una più generale contrazione della spesa pubblica, ma così non è. Nello stesso arco di tempo e sempre in termini nominali, la spesa pubblica complessiva si è espansa dell’1,5% (da 805 a 818 miliardi)[1].
Ovviamente non esiste solo il finanziamento pubblico ma anche quello privato, anche se ampiamente minoritario, almeno in Italia. Su questo tema i dati sono meno accessibili e meno recenti, tuttavia qualcosa si può dire. L’Ocse ci dice che in minima parte la contrazione della spesa pubblica è stata compensata da un incremento del finanziamento privato[2]. Se nel 2000 il finanziamento pubblico rappresentava il 94% dei finanziamenti delle istituzioni scolastiche, nel 2011 la quota era scesa all’89%; nello stesso arco di tempo l’investimento privato è quasi raddoppiato arrivando all’11% nel 2011.
Le differenze all’interno del sistema di istruzione sono notevoli. La spesa pubblica rappresenta il 96,2% dei finanziamenti nei cicli primari e secondari e il 66,5% del ciclo terziario. In Germania, per esempio, la situazione sembrerebbe più equilibrata con una quota di finanziamenti pubblici pari all’88% nella scuola e all’86 all’università, in Francia le quote sono rispettivamente il 92 e l’81, nel Regno Unito l’86 e il 30 (in Finlandia il 99 e il 96%…ma la Finlandia si sa è la Finlandia!). Diciamo che l’Italia sta nella media dei paesi Ocse (91 e 69). Un’altra informazione interessante è la spesa complessiva (pubblica e privata) per studente. Nella scuola primaria, secondaria e post-secondaria la spesa si è contratta tra il 2008 e il 2011 del 12% (peggio di noi solo l’Ungheria, mentre dall’altro lato della classifica, rimanendo in Europa, troviamo la Polonia dove l’aumento è stato del 16% e la Germania +12%).
Va meglio all’università, dove la spesa per studente in effetti è aumentata ma solo perché sono contestualmente diminuiti gli studenti… L’Ocse ci dice di più, i tagli che hanno ridotto così drasticamente la spesa per studente derivano principalmente da una contrazione del costo salariale per studente, che tra il 2008 e il 2011 nella scuola primaria è passato da 3242 dollari a 2769 dollari. Una contrazione del 15% che non si allinea con la media dei paesi Ocse dove la dinamica è stata opposta e ha registrato un incremento del 7%. Peggio è andata nella scuola secondaria dove si è registrata una contrazione del 20% da 3854 dollari a 3102. La riduzione del costo salariale è il risultato della politica di blocco del turn-over, ovvero del rimpiazzo del personale uscito per pensionamento. Questa politica ha portato l’età media dei docenti italiani ad essere la più alta d’Europa: nel 2012 più del 60% dei docenti aveva superato i 50 anni mentre la stessa quota non arrivava al 50% nel 2002[3]. In più il salario medio degli insegnati tra il 2008 e il 2012 si è contratto in termini reali del 2%.
Ultima nota dolente le spese in conto capitale (investimenti in immobili, edilizia, attrezzature…) che in Italia rappresentano meno del 4% del totale, uno dei livelli più bassi registrati dall’Ocse che registra una media del 7,4% e per Paesi più vicini a noi come Francia e Germania valori superiori al 9%.
Insomma pare davvero che non solo il messaggio non sia stato recapitato ma che in questi anni i Governi che si sono succeduti abbiano avuto la malaugurata idea di colpire proprio una delle poche aree di intervento pubblico che persino gli economisti chiedevano di valorizzare al fine di concretizzare una strategia di uscita stabile dalla crisi.