I crolli di Borsa sui mercati finanziari cinesi segnalano che la crisi delle economie occidentali sta estendendo i suoi effetti ricevendone a sua volta interazioni negative
I crolli di Borsa trasmessi dalla Cina a tutto il mondo, pur maturati nell’ambito della decelerazione annunciata di quel sistema economico, segnalano anche che la crisi delle economie occidentali iniziata nel 2007-2008 sta estendendo i suoi effetti ricevendone a sua volta interazioni negative.
Quando nel 2008 si manifestò con definitiva chiarezza quella che fu definita “crisi globale”, veniva precisato che si faceva riferimento ai “soli” paesi sviluppati dell’Occidente capitalistico, in particolare agli Usa (dove la crisi ebbe origine) e all’Europa (dove si propagò accentuandosi); il Giappone era in stagnazione già da tempo. Mentre quelle aree economiche entravano in una crisi rivelatasi di tipo epocale (inizialmente i più ottimisti l’avevano circoscritta alla dimensione finanziaria dell’economia), nelle cosiddette economie emergenti non si avvertirono problemi; anzi, gli indicatori economici continuarono ad essere anche molto positivi. Però, successivamente – mentre negli Usa una politica economica più pragmatica attenuava i danni e nell’Eurozona l’ottusità della “austerità espansiva” li aggravava – la crescita si è ridotta o annullata anche in quasi tutti i paesi BRICS. Dal 2007 alle previsioni per il 2015, la crescita annua del Pil è passata dal 10% al 3% per l’India, dal 6% all’1,5% per il Brasile, dall’8,5% allo zero per la Russia. Rimaneva la Cina, che con i suoi elevati volumi di crescita del Pil e del commercio con in paesi occidentali attenuava i problemi di quest’ultimi e costituiva una speranza per il loro superamento. Ma adesso anche in Cina, indipendentemente dagli attuali crolli di Borsa, sono sempre più evidenti segnali di cambiamento rispetto allo sviluppo travolgente degli ultimi anni (dal 14% di crescita del Pil nel 2007, le previsioni per il 2015 sono anche inferiori al 5%; le esportazioni cinesi nel 2014 hanno registrato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono diminuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015). In Cina emergono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello dominante nei paesi capitalistici occidentali nell’ultimo trentennio, ha in comune il contenimento dei salari e la carenza dei consumi interni (pur se a livelli molto più bassi). In Cina, diversamente dall’occidente capitalistico, c’è stata una accumulazione forzosa volta a recuperare – finora in modo efficace – la sua arretratezza (capitalistica). Essa è stata alimentata con una distribuzione favorevole ai profitti (pubblici e privati) e con il loro reinvestimento in capacità e innovazione produttiva, spingendo gli stessi redditi da lavoro verso acquisti in Borsa per finanziare le imprese e lo stato (il debito pubblico cinese è pari al 280% del Pil). L’elevato aumento della capacità produttiva e i bassi consumi interni hanno determinato anche un elevato surplus nel commercio estero e il reinvestimento dei proventi valutari in titoli stranieri, soprattutto USA.
Il modello di sviluppo cinese ha dunque contribuito al fenomeno mondiale della forte crescita di debiti e crediti che ha contribuito a far esplodere la crisi globale, ma in modo diverso (e fortemente controllato dalle autorità statali) da quello generato dalla finanziarizzazione delle economie occidentali. In queste ultime gli squilibri nel settore reale erano parzialmente attutiti dal crescente interscambio con la Cina. Tuttavia, le persistenti cause della crisi dei paesi capitalisticamente sviluppati (principalmente: la congenita carenza di domanda derivante dalle diseguaglianze distributive e dai bassi salari; le condizioni d’incertezza economico-sociali alimentate dalle riforme del mercato del lavoro e dalle politiche fiscali restrittive; il ridotto ruolo interattivo dell’intervento pubblico rispetto ai mercati) non solo hanno reso insufficienti gli stimoli provenienti dallo sviluppo cinese, ma – viceversa – hanno finito per riversare e cumulare i propri effetti negativi sugli squilibri di quest’ultimo (salari e consumi interni bassi) contribuendo a frenarlo.
La decelerazione dell’economia cinese ha cause proprie, ma un contributo è ascrivibile alla perseverante crisi delle economie occidentali che ha finito per assumere una dimensione effettivamente globale. Questa evoluzione negativa è stata accentuata dalle politiche prevalenti nell’Euro zona che da mesi sono concentrate sui vincoli da imporre alla Grecia (ma con intenti dimostrativi per gli altri paesi periferici e la stessa Francia) per assisterla con un intervento da 86 miliardi di euro (in buona parte da utilizzare per la restituzione di debiti alla stessa Troika) che, tuttavia, rappresenta circa un decimo di quanto le Borse europee hanno perso nella sola settimana scorsa e ieri per effetto della “sindrome cinese”.
Una similitudine significativa sulla quale dovrebbero riflettere sia i fautori europei del modello tedesco sia chi auspica la rottura dell’euro è che nell’Unione europea e in Cina si stanno evidenziando i pur prevedibili problemi generati dalla inadeguatezza – pur se a livelli diversi – dei salari e dei consumi, e dalla difficoltà di compensarne l’effetto negativo sulla domanda con le esportazioni. Di fronte alla pericolosa tendenza delle svalutazioni competitive tra grandi aree – Usa, Cina, Giappone, Unione europea – i paesi membri di quest’ultima rischiano di parteciparvi in condizione di più accentuata debolezza, cioè in ordine sparso, se torneranno dall’euro alle valute nazionali.
Nonostante alcuni segnali timidi e incerti, concentrati soprattutto negli Usa, che periodicamente spingono a sperare che la crisi sia passata, essa si sta invece estendendo a territori inizialmente risparmiati con effetti di ritorno negativi che ne accentuano la portata. La concentrazione degli intenti espansivi sulla politica monetaria sta alimentando una ingente offerta di liquidità che, permanendo gli ostacoli di natura reale alla ripresa e alla sua riqualificazione, rifornisce la speculazione finanziaria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove iniziano ad esplodere con modalità contagiose.
Non è sorprendente che nel dibattito teorico si sia tornati a valutare l’ipotesi che sia in corso una “stagnazione secolare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con motivazioni arricchite dalle specificità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più – nei congressi accademici e in una “rassicurante” ottica di lungo periodo che sembra definire un piano parallelo di discussione sconnesso dalle vicende e dalla politiche economiche correnti. Come da tempo succede, i politici credono di avere altro di più importante cui pensare, ma – avvertiva Keynes – “sono di solito schiavi di qualche economista defunto.”