Pubblichiamo un capitolo del libro di Angela Pascucci “Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione”, appena uscito per Edizioni dell’Asino
Wuhan. Negli ultimi venti anni oltre 250 milioni di cinesi hanno lasciato le campagne per andare a lavorare in città, scomponendo i connotati sociali del paese. La vecchia classe operaia è stata smantellata ed emarginata per essere sostituita da un esercito di nongmingong, contadini lavoratori, essi stessi nuova classe dai contorni sociologici ancora in fieri; l’abbandono dell’agricoltura da parte delle generazioni più giovani ha stravolto il mondo contadino; l’urbanizzazione di proporzioni titaniche avvenuta a spron battuto ha fatto delle aree limitrofe alle città un terreno di battaglia tra interessi contrastanti. Le campagne cinesi e il loro rapporto con le città non smettono di essere al centro della storia cinese.
Nella radicale trasformazione i contadini hanno perso la loro vecchia fisionomia di classe e cambiato in profondità il proprio rapporto con la terra, diventata ormai una fonte di accumulazione primitiva del capitale. È questo un aspetto cruciale nei conflitti riguardanti gli espropri di terra. Soprattutto i contadini che vivono sulla linea di avanzamento dello sviluppo metropolitano, ritengono di avere tutto il diritto a una fetta consistente della grande torta della speculazione edilizia. In questo senso, il destino della questione agraria non li riguarda, non essendo più interessati a preservare l’identità contadina e il duro lavoro che comporta.
È tenendo conto di questo scenario che il professor He Xuefeng, direttore del Centro per il governo della Cina rurale all’Università Huazhong di Wuhan, dove lo incontriamo, invita a esaminare le lotte dei contadini cinesi tenendo conto della loro complessità. Oggi in Cina la terra è di proprietà pubblica e solo i diritti d’uso appartengono alle famiglie. L’opinione diffusa, almeno in occidente, è che, se fosse introdotta la proprietà privata della terra, i contadini potrebbero difendersi meglio dai soprusi dei governi locali. Il professor He, che vanta insieme al suo centro decine di migliaia di ore di ricerca sul campo, non è affatto di questo avviso e fa notare che i conflitti più accesi avvengono alle periferie delle città e nelle aree interessate dallo sviluppo urbano e industriale, dove però si trova solo il 5% della popolazione rurale (ancora oggi, secondo l’ultimo censimento, costituita da 656 milioni di persone). Le pressioni più intense a privatizzare, per avere più forza contrattuale, vengono da qui. Inoltre, dice, bisogna capire che la grande migrazione dei nongmingong dalla campagna alla città ha provocato una frattura tra gli interessi di chi è rimasto e di chi se n’è andato. Molti di coloro che lavorano in città, non potendo più coltivare la terra, vorrebbero essere liberi di disporne a piacimento, senza dover rispondere alla comunità. Da qui la pressione sui governi locali perché consentano una sorta di “privatizzazione” dell’uso, che di fatto avviene. Ma queste richieste, afferma He Xuefeng, stanno distruggendo la capacità delle comunità di effettuare quei lavori infrastrutturali di mantenimento e miglioramento delle condizioni necessarie a un più efficiente sfruttamento della terra (strade, irrigazione, macchine e quant’altro), provocando un grave degrado delle campagne. Inoltre, poiché il valore della terra cresce con lo sviluppo dell’industria e del terziario, si capisce l’aumento esponenziale della pressione, anche da parte dei contadini, a “disfarsi” dell’uso agricolo della terra per ricavare più soldi.
È un nodo cruciale questo, nel ragionamento di He Xuefeng, perché a suo parere ne va della stabilità del paese. I lavoratori migranti che disponessero della proprietà la venderebbero. Improvvidamente, secondo l’esperto agrario, perché il ricavo non sarebbe abbastanza alto da garantirgli una vita sicura e decente nelle costose città. Inoltre perderebbero l’assicurazione che la terra rappresenta in termini di possibilità di un ritorno qualora l’esperienza di lavoro nelle metropoli andasse male.
Ma la questione della terra, osserviamo, arriva in occidente come un conflitto violento fatto di rivolte, scontri e disperati gesti individuali contro gli abusi del potere e la corruzione. La risposta è sorprendente: in realtà non si possono dividere i buoni dai cattivi. Tutte e due le parti cercano di accaparrarsi il più alto margine di profitto possibile dalla terra. Le proteste riportate dai media occidentali avvengono nei luoghi più caldi di questo conflitto e i dimostranti sono consapevoli che quanto più forte sarà l’attenzione che riusciranno a ricevere dai media, tanto più alta sarà la loro possibilità di vittoria.
Sembra una spirale perversa, rileviamo: chi ha un piccolo appezzamento non vuole coltivarlo ma spera in una riconversione ad altri usi che gli consenta di intascare più soldi, assecondando così le mire dei costruttori e delle autorità locali. Ma a questo punto che futuro si profila per l’agricoltura cinese? He Xuefeng dà un’altra risposta contro corrente. È sui migranti, dice, che bisogna lavorare per garantire il futuro dell’agricoltura cinese (1), costruendo opportunità sociali ed economiche che consentano loro di tornare indietro. Eppure, ribattiamo, i piani di urbanizzazione prevedono lo spostamento nell’arco di un decennio di centinaia di milioni di persone nelle città, inoltre le giovani generazioni non sembrano desiderose di tornare indietro. Del resto non s’è mai visto un paese moderno con il 50% della popolazione impiegato nell’agricoltura… Il professore non crede a questi piani. Procedere all’urbanizzazione in tempi così rapidi sarebbe destabilizzante dal punto di vista sociale. Le città si riempirebbero di favelas, che oggi in Cina non esistono. Bisogna che i migranti possano tornare indietro, insiste il professore. Ancora oggi, d’altra parte, molti non vogliono rinunciare all’hukou (certificato di residenza) contadino che, se li priva dei diritti e delle garanzie assicurate ai cittadini, tuttavia dà loro altri vantaggi, ad esempio possono fare più di un figlio e gli è consentito di accedere alle università con un voto più basso all’esame di ammissione. Viste le dimensioni del paese, assicura il professore, ci vorranno tra i trenta e i cinquant’anni prima che la Cina raggiunga la situazione degli altri paesi. Per ora la cosa più importante è preservare il diritto di ritorno alla terra. Le campagne cinesi sono scosse e lacerate da un mutamento cruciale. In ballo è il futuro dell’agricoltura che potrebbe imboccare, e in parte lo ha già fatto, la strada di non ritorno dell’industrializzazione modernizzante attuata dal grande business dell’agro-industria. Fatale per la struttura dei piccoli possedimenti, quest’ultimo ben si concilia con la migrazione di massa prossima ventura disegnata dai piani. Una vera iattura, per la visione del mondo di He Xuefeng che, figlio di contadini dell’Hubei, ha una passione vera per la campagna e ritiene che solo questa può garantire la diversità culturale che può salvare il mondo, contro una dimensione urbana che, omogeneizzando tutto, la distrugge. E allora, dice il professore dall’animo contadino, per salvaguardare tutto questo in Cina bisogna riorganizzare la struttura di base, quella del villaggio, ultimo anello della catena amministrativa e che conserva comunque una sua, pur indebolita, autonomia. È da qui che bisogna ripartire per restituire potere ai contadini e futuro non solo all’agricoltura ma all’intero paese.
Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione di Angela Pascucci (167 pagine, 12 euro, Edizioni dell’Asino 2013)(1) L’opinione dei vertici almeno su un argomento è unanime: l’urbanizzazione accelerata può tenere l’economia del paese sulla corsia di sorpasso per almeno altri 15-20 anni, è un obiettivo storico che va di pari passo con la modernizzazione del paese e sarà il principale volano per la crescita dei consumi interni, che deve andare a sostituire la forte dipendenza dalle esportazioni. Quindi, avanti a tutta velocità. L’ultimo censimento ha rivelato, alla fine del 2011, che la popolazione urbana cinese per la prima volta nella storia ha superato quella delle campagne (690,79 milioni contro 656,56 milioni), e secondo le previsioni della Banca mondiale nel 2030 costituirà il 70% degli abitanti della Cina. Nell’arco di diciotto anni, dunque, altri 180 milioni di persone trasmigreranno. Per avere un’idea dell’ampiezza e della velocità del fenomeno, basti pensare che nel 1980 i cinesi che vivevano nelle città erano un quinto di quelli che vivevano in campagna. Uno studio del 2009 stilato dal McKinsey Institute dà sul futuro numeri ancor più da capogiro: un miliardo di persone vivranno nelle città entro il 2030; 221 città cinesi avranno più di un milione di abitanti; cinque miliardi di metri quadrati di strade verranno lastricati; cinque milioni di edifici saranno costruiti, 50mila di questi saranno grattacieli; il Pil del 2000 si quintuplicherà entro il 2025 (Preparing for China’s urban billion, McKinsey Global Institute, marzo 2009). Una prospettiva da incubo, se le città in costruzione saranno sgraziate, congestionate, inquinate e invivibili come la maggior parte di quelle edificate finora, e chi le abiterà (soprattutto i migranti) continuerà a non avere diritti di residenza. Anche se va riconosciuto che in questo spostamento titanico, almeno sono state evitate le baraccopoli.