Nonostante due sentenze contrarie della magistratura, il Servizio civile nazionale continua ad essere vietato agli stranieri privi di cittadinanza italiana
Non sono neppure 600, al momento, i ragazzi impegnati nel Servizio civile nazionale. Per tutto il 2012 i soldi per emanare il bando non ci sono stati, e solo i 65 milioni raggranellati nel 2013 ne hanno permesso il decollo lo scorso ottobre. Pochissimi i posti – 15.461 di cui 502 per attività all’estero – e in più il timore di una sospensione per gli eventuali effetti del ricorso presentato giorni fa al Tribunale di Milano da due associazioni che contestano l’esclusione dei ragazzi senza cittadinanza italiana. Asgi (Associazione di studi giuridici per l’immigrazione) e Apn (Avvocati per niente ), in verità, quella causa l’hanno già vinta già due volte, con una prima sentenza favorevole, e con il successivo rigetto del ricorso della Presidenza del Consiglio che l’ha resa definitiva.
L’imposizione del requisito della cittadinanza italiana, per i giudici milanesi, è senza alcun dubbio “discriminatoria”, e proprio perché il Servizio civile nazionale, così come è regolamentato, non è ascrivibile a un’attività di “difesa della Patria” ma piuttosto ad attività di “solidarietà sociale”. E però da noi non è scontato, checché se ne dica, che le sentenze della magistratura si debbano sempre e comunque onorare. Dipende. Questo è appunto uno di quei casi che danno ragione alla lucidità di Ennio Flaiano a proposito di un’Italia che essendo “la patria del diritto è anche la patria del rovescio”. Perché dopo un bel po’ di discussioni si è scelto di non farne niente. Non è stata seguita la via delle modifiche amministrative, ritenuta troppo impervia anche dal ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, e neppure quella legislativa ritenuta dal governo ancora più impervia. Niente di niente, insomma, la solita inconcludenza incapace di grandi riforme, e anche di piccoli passi. Ad andare avanti, intanto, è il tradizionale doppio binario, con un Servizio civile nazionale sbarrato anche a chi è nato in Italia o ci studia da anni, e il Servizio civile promosso da molti Comuni grandi e piccoli che invece le seconde generazioni le fa partecipare.
Che dire? Innanzitutto che c’è una enorme confusione, e non da ora, su un Servizio civile nazionale che si è voluto fin dall’inizio volontario invece che obbligatorio, e che viene stiracchiato come un elastico a seconda dei contesti. Come si vede, fra l’altro, dal fatto che ci sia anche il Servizio civile nell’elenco delle opportunità di inserimento sociale e lavorativo che lo Stato, nella versione italiana del programma europeo 2014-2015 “Youth Guarantee” (1,2 miliardi tra fondi europei e nazionali ), si impegna ad offrire ad almeno 204.000 giovani a quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione. Di che si tratta, allora? È un lavoro, un’occasione formativa, un’attività patriottica, che altro?
Ma il bando di ottobre è soprattutto l’ennesima dimostrazione di una cecità politica insostenibile nei confronti dell’immigrazione e della necessità di una sua migliore integrazione. Di qui a un paio di decenni i figli di genitori stranieri saranno una parte numericamente decisiva, per lo sviluppo economico e civile del paese, della popolazione più giovane. Già oggi degli 800 mila studenti di origine straniera che frequentano le scuole italiane il 44% è nato in Italia e una grande quota è arrivata prima dell’inizio dell’età scolare. Moltissimi di loro non hanno nei fatti altro paese che il nostro, ed è qui che vogliono restare, studiare e lavorare. In questi giorni si è aperta ufficialmente, con una lettera aperta alle famiglie di un gruppo di giovani di Associna, un’interessante discussione sull’importanza di un atteggiamento più aperto delle loro comunità nei confronti della società e della cultura italiana. Sono sempre di più i ragazzi di origine straniera attivi nel volontariato e nell’associazionismo civile. E noi, lo Stato e la politica italiana, di queste trasformazioni che cosa ne facciamo? Niente, al momento, su un riconoscimento più facile della cittadinanza. Niente sul costoso calvario dei rinnovi dei permessi di soggiorno e del conseguimento di quello di lunga durata. Poco sulla validazione dei titoli di studio conseguiti all’estero. Poco, e con difficoltà, sull’apprendimento della lingua italiana. E ora, nonostante sentenze avverse, c’è perfino la replica del divieto d’accesso alla partecipazione insieme ai coetanei italiani ad attività di aiuto ai più deboli, a lavori utili alla comunità, a una presa di contatto diretta con la realtà sociale ed associativa del paese. Dove si può imparare concretamente ad essere cittadini attivi e responsabili, a praticare la solidarietà, a costruire la coesione sociale. Obiettivo importante per tutti, giovani e adulti, in un paese sempre più povero di intelligenza e di generosità sociale e sempre più frantumato, che dovrebbe consigliare un allargamento del Servizio civile e un sostegno maggiore agli Enti che ne promuovono le attività. Ma tanto più importante per chi di integrazione, intesa come capacità di identificarsi meglio con la comunità, ha più bisogno di altri. O vogliamo che anche qui, attraverso la percezione di una irragionevole disuguaglianza rispetto agli italiani Doc, si accumulino solo rancori, risentimenti, ostilità? Ce ne sono già fin troppi, tra gli stranieri che in Italia imparano subito che il più importante modo per sopravvivere è riuscire ad aggirare le leggi. Gli immigrati sono una “risorsa” dello sviluppo, si proclama a sinistra, ma questo non succede spontaneamente o automaticamente. Non diventa vero se non a determinate condizioni, e per effetto di politiche adeguate. Il resto è retorica, e delle più dannose.