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L’Europa e le ricette sbagliate

La procedura aperta dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia a causa degli squilibri macroeconomici eccessivi mostra l’incoerenza fra la necessità di reperire le risorse per lo sviluppo e quella di continuare a perseguire una politica di bilancio eccessivamente restrittiva

La procedura iniziata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia a causa degli squilibri macroeconomici eccessivi è stata intesa nel dibattito nazionale come un nuovo richiamo a un aggiustamento dei conti pubblici italiani. In realtà lo scopo di questa procedura è richiedere l’adozione di una serie di politiche macroeconomiche, con l’obiettivo di ridurre le divergenze all’interno dell’Ue relativamente ad alcune variabili come il deficit della bilancia commerciale e il debito privatopubblico. L’analisi degli squilibri macroeconomici si basa, in un primo stadio, sull’osservare l’andamento di un insieme di indicatori (tra cui debito privato/pubblico, saldo commerciale, quota di mercato delle esportazioni, costo del lavoro e altri) che al superamento di determinate soglie diventano oggetto di un’analisi economica più dettagliata. Sulla base dei risultati di questo studio la Commissione ha la facoltà di giudicare se gli squilibri macroeconomici siano da ritenere eccessivi, come accaduto nel caso dell’Italia, e richiedere al paese in questione di attuare le misure ritenute idonee a correggere tali squilibri. Bisogna notare che dall’esame di variabili così complesse difficilmente possono scaturire delle ricette economiche inequivocabili. Per questa ragione le raccomandazioni della Commissione, pur mancando di piena legittimazione teorica, costituiscono un vero e proprio atto di indirizzo della politica economica del paese, che si chiede di realizzare in assenza di un serio dibattito sulle possibili alternative di policy e degli effetti redistributivi delle ricette proposte.

Nel caso dell’Italia la Commissione nota che gli squilibri macroeconomici eccessivi derivano dall’alto debito pubblico, dalla bassa crescita dell’economia e dalla continua perdita di competitività delle esportazioni italiane. L’analisi si concentra poi sui fattori che contribuiscono a determinare questa situazione di scarsa performance. Molte delle cause individuate sono ben note, come ad esempio la specializzazione sfavorevole della manifattura italiana, con esportazioni ancora troppo concentrate in settori a bassa-media tecnologia e quindi soggette a un’accresciuta concorrenza internazionale. A ciò si aggiunge la ridotta dimensione delle piccole e medie imprese che in un gran numero di casi sono ancora gestite a livello familiare, caratteristiche che rendono difficile la loro presenza sui mercati esteri. Altri notevoli punti di debolezza vengono individuati nell’inefficienza del sistema giudiziario e della pubblica amministrazione, così come nell’alto livello di corruzione e evasione fiscale. Vi sono però altri dati che, seppur rilevanti, sono meno enfatizzati nel dibattito italiano. Ad esempio la spesa privata in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (0.7% del Pil) è ben inferiore sia alla media Ue sia a paesi come la Germania (1.9% del Pil). Dal punto di vista del capitale umano i lavoratori italiani appaiono in media meno competenti di altri paesi, come dimostra il dato sulla percentuale di laureati, dove l’Italia si piazza all’ultimo posto in Europa.

Nonostante l’analisi individui un gran numero di fattori di debolezza, in alcuni casi di difficile interpretazione, le raccomandazioni della Commissione vanno nella direzione tipica delle politiche attuate negli ultimi anni. In particolare, poiché si riconosce che i benefici (teorici) delle fantomatiche riforme strutturali si materializzeranno solo nel medio/lungo periodo, nell’immediato si richiede di continuare e accentuare la politica di moderazione salariale. Ancora una volta è questa la strategia principale richiesta dalla Commissione europea a prescindere dal tipo di paese, dalle caratteristiche della sua economia e dagli effetti disastrosi di queste politiche sulla domanda interna. Nel caso dell’Italia moderazione salariale significa solamente accentuare le tendenze già in atto. La Commissione, infatti, omette di evidenziare che i salari italiani sono cresciuti meno che in molti altri paesi e al netto dell’inflazione si osserva una perdita del potere d’acquisto dei lavoratori (Grafici1-2). In sostanza sono più di dieci anni che in Italia si applica, senza successo, la politica della moderazione salariale.

Grafici 1-2

Come notato sul Social Europe Journal, è la stessa Commissione Europea a evidenziare, in un altro rapporto, come il prezzo delle esportazioni ha una rilevanza trascurabile nel determinare l’attrattività delle esportazioni europe sui mercati internazionali rispetto ai fattori che esulano dai prezzi.

www.social-europe.eu/2014/03/unveiling-dg-ecfin-thinking-competitiveness/

Nonostante ciò, il dato che più mette in questione gran parte dell’analisi della Commissione, è quello sul contributo dei consumi interni e del saldo commerciale alla crescita del Pil. Il rallentamento dei consumi, dovuto presumibilmente alla riduzione del reddito disponibile, è il principale responsabile della bassa crescita del Pil nel periodo 2001-2007 e ancora di più dall’inizio della crisi, mentre la riduzione del saldo commerciale contribuisce in misura decisamente inferiore e non si discosta molto da quanto osservato negli anni 90. Il contributo positivo del saldo commerciale durante la crisi è invece spiegato dalla diminuzione delle importazioni a seguito del crollo della domanda interna (grafico 3). Per questo motivo la strategia di crescita basata sull’esportazioni, su cui punta la Commissione, non fa altro che accentuare il rallentamento dell’economia, se incentrata, come accaduto sino ad ora, sul contenimento dei salari e su politiche fiscali restrittive. In aggiunta il basso livello degli stipendi italiani contribuisce all’incapacità dell’Italia di attrarre lavoratori qualificati dall’estero e spinge sempre più giovani a emigrare, privando il paese dei suoi giovani più qualificati.

Grafico 3:

La bassa crescita della produttività è identificata come uno dei principali mali del nostro paese e uno delle ragioni per la dinamica stagnante dei salari. Sulle cause della bassa produttività non vi è ancora una spiegazione chiara fra gli addetti ai lavori, tuttavia la ricetta richiesta dalla Commissione per stimolare la dinamica della produttività è incentrata principalmente sulla decentralizzazione della contrattazione a livello della singola impresa, senza che nessuna analisi abbia mai dimostrato la validità di questa ipotesi. L’unico effetto di questa politica può essere solo quello di un’ulteriore compressione al ribasso dei salari e delle tutele dei lavoratori, nel momento in cui nulla vieta alle imprese più produttive di pagare remunerazioni maggiori per motivare e accaparrarsi forza lavoro più qualificata. Inoltre è la stessa Commissione a rilevare che in Italia la spesa pubblica per l’istruzione è inferiore alla media europea per un valore pari a circa un punto di Pil, ossia più di 15 miliardi. Ci si chiede dunque perché non vi sia traccia di una raccomandazione che vada nella direzione di un aumento della spesa pubblica nel comparto, tanto più che nell’analisi sono citate elaborazioni secondo cui, il basso livello di competenza del capitale umano, spiegherebbe una parte significativa del gap produttivo dell’Italia.

Altra raccomandazione criticabile è la richiesta di agevolare la riallocazione dei lavoratori fra imprese e settori produttivi. In altre parole con questa formulazione si domanda di facilitare i licenziamenti individuali, fermo restando che già oggi le imprese hanno la possibilità di operare dismissioni collettive del proprio personale a seguito di ristrutturazioni industriali. A meno che non si voglia ridurre la questione della disoccupazione a uno scontro generazionale, la relazione fra maggiori licenziamenti, calo della disoccupazione e maggiori investimenti in settori più produttivi, è alquanto dubbia e si caratterizza soprattutto per un alto grado di connotazione ideologica. Vi sono poi altre considerazioni di politica economica che vengono trascurate in questa impostazione. Esse coinvolgono la necessità di sostenere fino all’età della pensione e a meno di non voler creare un disastro sociale, quella fascia di lavoratori tra i 50-65 anni che si troverebbero a perdere il proprio impiego, con scarse possibilità di conseguire un’altra occupazione. Bisogna, inoltre, porre l’accento sul fatto che, a seguito delle riforme realizzate negli ultimi 15 anni, non da ultima quella recente sulla limitazione dell’uso dell’articolo 18, le tutele dei lavoratori in materia di licenziamento sono ormai in linea, con quelle degli altri paesi europei.

Infine, l’analisi della Commissione continua a caratterizzarsi per l’incoerenza fra la necessità di reperire le risorse per alcune misure ritenute necessarie, come ad esempio la richiesta di ridurre il costo del lavoro (in aggiunta al non menzionato incremento della spesa per l’istruzione), e quella di continuare a perseguire una politica di bilancio eccessivamente restrittiva, per rispettare il vincolo sulla riduzione del rapporto debito pubblico/Pil, anche in presenza di una crescita del prodotto (denominatore del rapporto) assente o molto bassa.