La realizzazione delle sue potenzialità richiede che la costruzione europea sia attuata con una lungimiranza politica, economica, istituzionale e democratica che finora è mancata. Ma il progetto comunitario era ed è ancora un’occasione specifica per riequilibrare i rapporti tra mercati e istituzioni
Perché la sinistra (e non solo) deve impegnarsi con forza per cambiare le modalità della costruzione europea, ma comunque deve sostenere convintamente quell’obiettivo senza farsi distrarre da piani B? Anche in vista delle elezioni europee, la risposta a questa domanda dovrebbe essere scontata, ma – purtroppo – ogni giorno che passa lo è di meno; è un’evoluzione pericolosa che va contrastata.
Tra le cause principali della crisi globale esplosa nel 2007-2008, che esprime e accentua i peggioramenti economico-sociali avvenuti nell’ultimo trentennio (come quelli della distribuzione del reddito, della precarietà delle condizioni di lavoro e di vita, della qualità sociale ed ecologica della crescita economica), c’è la globalizzazione dei mercati e la loro autonomizzazione rispetto alle istituzioni e alla politica cioè rispetto alla definizione democratica delle scelte collettive.
In Europa le cose stanno andando particolarmente male. Eppure, il progetto comunitario – oltre a corrispondere alle preoccupazioni del possibile ripetersi dei terrificanti conflitti bellici della prima metà del Novecento – era e sarebbe ancora un’occasione specifica per riequilibrare i rapporti tra mercati e istituzioni, estendendo queste ultime a livello continentale. Peraltro, tale estensione non dovrebbe indebolire il ruolo delle istituzioni nazionali e locali; invece, precisando l’ambito dei territori e delle popolazioni interessati a ciascun tipo di problema comune, l’efficace coordinamento delle istituzioni operanti ai vari livelli accrescerebbe la loro capacità complessiva di rappresentanza democratica delle esigenze collettive.
Naturalmente, ciascuna e tutte le istituzione dovrebbero rafforzare la loro credibilità sia verso i loro rappresentati sia tra di loro sia nei confronti dei mercati. A questo riguardo, può essere utile notare, anche solo di passaggio, che un eventuale default di un bilancio statale (o di altro ente locale), oltre a innescare reazioni dei creditori interni ed esteri dagli esiti imprevedibili, farebbe crollare la sua reputazione e, in particolare, la sua capacità di rappresentare le scelte e gli interessi collettivi rispetto a quelli individuali; i ceti più deboli sarebbero comunque seriamente penalizzati dall’inevitabile drastica riduzione delle prestazioni sociali.
Va altresì tenuto presente che interventi straordinari e non convenzionali sui bilanci pubblici possono avere effetti molto diversi a seconda che siano decisi autonomamente da singole istituzioni – con modalità inevitabilmente conflittuali – oppure in modo coordinato con le altre in nome di un vantaggio collettivo ritenuto superiore.
Le possibilità di sviluppo economico-sociale di ciascun paese europeo sarebbero potenzialmente favorite dalla sua inclusione nell’Unione che diventerebbe la maggiore economia mondiale; proprio per questo, la sua crescita complessiva avrebbe minori vincoli esterni e sarebbe avvantaggiata (non frenata) da politiche di riduzione delle differenze territoriali, incluse quelle riguardanti i bilanci pubblici nazionali e locali; la maggiore forza economica dell’Unione consentirebbe di difendere quelle politiche contro le strumentalizzazioni speculative dei mercati.
Ma la realizzazione delle sue potenzialità richiede che la costruzione europea sia attuata con una lungimiranza politica, economica, istituzionale e democratica che, invece, è carente (ma non lo fu affatto nell’unificazione tedesca). Finora hanno prevalso interessi nazionali a danno di quelli comunitari; la logica intergovernativa ha fatto premio sulla rappresentanza democratica, riducendo il consenso e la partecipazione popolare al progetto comunitario; la visione ideologica delle scelte politiche ed economiche considera le istituzioni – paradossalmente – un intralcio al funzionamento dei mercati: non è un caso che la costruzione europea sia stato affidata solo alla loro unificazione e a quella delle monete e delle banche centrali; il rigore finanziario e l’austerità imposti come prerequisito anche etico della costruzione europea sono controproducenti e applicati in modo asimmetrico, cioè accettando i disavanzi delle imprese private (specie quelle finanziarie) e scaricandoli sui bilanci pubblici di cui si chiede il pronto risanamento a carico delle popolazioni.
Si potrebbe continuare nell’elenco sia delle incongruenze presenti nella costruzione europea sia delle responsabilità; ma il problema è: come si reagisce a questa situazione? Come metodo, occorrerebbe combinare al meglio la razionalità e i giudizi di valore, verificando che l’esito sia il più possibile coerente con l’interesse maggioritario; cioè occorrerebbe muoversi in senso progressivo, ma tenendo presente due avvertenze. La prima è che quella combinazione va tarata tenendo bene in conto gli ostacoli che lo stato di cose esistente – peggiorato dalla crisi – pone al suo superamento. La seconda è che la razionalità non regola sempre le scelte politiche europee (e non solo), altrimenti non si spiegherebbero, ad esempio, i due conflitti mondiali scatenati a distanza di un ventennio nel secolo scorso.
Ciò premesso sarebbe del tutto contrario alla progressività delle scelte progettare piani B alternativi alla costruzione europea, che accrediterebbero ritorni a logiche frammentate e contrapposte in un mondo dominato da istituzioni nazionali di dimensioni continentali e da operatori di mercato sovranazionali. Questa soluzione, da tempo presente nel dibattito, sta accrescendo i suoi consensi a seguito delle frustrazioni alimentate dal persistere delle politiche comunitarie inique e fallimentari prima ricordate. Tuttavia, si tratta di un atteggiamento simile a quello del giocatore che, persa la palla, fa fallo di reazione col risultato di essere espulso ad ulteriore vantaggio della squadra avversaria.
A questo punto le alternative sono sostanzialmente due: la prima è insistere convintamente sull’interesse generale degli europei (e non solo) a realizzare l’Unione, nella consapevolezza che il coordinamento democratico, la partecipazione popolare e le politiche volte a sostenere la quantità e qualità della crescita riducendo le disuguaglianze non sono degli optional che denotano scarso rigore, ma le modalità necessarie per unirsi economicamente, socialmente e politicamente; la seconda è accentuare la logica della contrapposizione tra i “forti” che pretendono d’imporre la loro idea stupida di rigore e i “deboli”, che pensano a decisioni unilaterali di default o a uscite dall’euro con l’idea non meno stupida di pensare che in un contesto così poco intelligente un “debole” possa ricattare un “forte” senza che vi siano reazioni anche catastrofiche (quando Brenno pose la spada sulla bilancia, i rapporti di forza glielo consentivano, e comunque non ne trasse profitto nel medio periodo). Il punto che fa fatica ad essere compreso sia dai “forti” che dai “deboli” – entrambi sostenendo o subendo questa logica conflittuale che sta pericolosamente diffondendosi – è che allo stadio attuale del progetto comunitario occorrerebbe molta più solidarietà e cooperazione per retrocedere ordinatamente e senza conflitti (non solo economici) rispetto all’obiettivo che non per andare avanti verso l’Unione anche politica. Se la volontà e la razionalità saranno insufficienti a raggiungere i vantaggi della costruzione europea lo saranno ancora meno per evitare una rottura traumatica del suo percorso.