Conta l’età in cui si va in pensione, ma anche quella in cui si comincia a lavorare. Effetti negativi e paradossi della proposta Draghi sulla previdenza
Il Governatore Draghi, partendo dai problemi posti dalla crisi, ha fatto due proposte: il potenziamento degli ammortizzatori sociali e l’aumento dell’età pensionabile. La prima è largamente condivisibile proprio a partire dai dati ricordati dallo stesso Governatore e da altri ancora che confermano come la vera anomalia del nostro sistema di welfare sia appunto la marcata inadeguatezza dei nostri ammortizzatori sociali i quali lasciano del tutto scoperti proprio i lavoratori maggiormente a rischio di disoccupazione, come i parasubordinati , e coloro che sono in cerca del primo impiego. Attualmente, meno di un terzo dei disoccupati riceve un’indennità di disoccupazione, ma il basso tasso di attività indica che coloro che involontariamente non lavorano sono più di quanti appaiono nelle statistiche dei disoccupati poiché molti di essi, scoraggiati dalla possibilità di trovare un impiego, nemmeno figurano in cerca di lavoro. La crisi conferma (specialmente a chi l’aveva rimosso con teorie ottimistiche) che l’instabilità dei mercati è un dato strutturale e crescente, cosicché assicurare un reddito ai disoccupati non è solo un’esigenza sociale, ma anche economica perché sostiene la domanda in un momento di particolare bisogno.
Ma proprio a partire dalla crisi, non ne discende affatto che questo sia il momento migliore per imporre un aumento dell’età pensionabile. Il buon senso suggerisce che aumentando la vita media attesa e le condizioni di buona salute, anche l’età di pensionamento possa aumentare; specialmente se l’invecchiamento demografico accresce il rapporto tra gli anziani da mantenere e i giovani attivi e se la ridotta crescita economica fa aumentare meno o riduce il reddito complessivo da dividere. Elevando l’età di pensionamento, contemporaneamente crescerebbe il numero degli attivi e diminuirebbe quello dei pensionati. Questo ragionamento deve tuttavia fare i conti con la circostanza attuale che stiamo viaggiando verso un tasso di disoccupazione superiore al 10%; potremmo anche imporre ai lavoratori anziani di rimandare il pensionamento e così accrescere il numero degli attivi potenziali, ma non per questo aumenteremmo la capacità del sistema produttivo di occuparli; anzi si stimolerebbe il contrario. Si ostacolerebbe ulteriormente l’impiego dei giovani e aumenterebbe sia l’età media degli occupati sia il costo del lavoro, con l’effetto ulteriore di frenare la dinamica della produttività e dell’innovazione che, invece, andrebbero incentivate proprio per accelerare l’uscita dalla crisi. Avremmo dei pensionati in meno e dei giovani disoccupati in più, con efædtti negativi anche per la domanda. D’altra parte, negli ultimi anni, i prepensionati hanno ripreso a salire, a riprova della difficoltà delle imprese di mantenere i livelli occupazionali.
Giustamente, il Governatore ha richiamato l’attenzione anche sulle pensioni molto basse che si prospettano per i giovani: ma se ritarderanno l’ingresso nel mondo del lavoro, saranno ancora di più basse. E se l’occupazione è scarsa, precaria e con bassi salari (che spesso non includono i versamenti per il TFR), è pure difficile capire come i giovani possano finanziare autonomamente la previdenza integrativa la quale viene addirittura proposta come un canale sostitutivo della pensione pubblica. Il Governatore prefigura infatti uno spostamento di risorse contributive che ridurrebbe ulteriormente le prestazioni del sistema pubblico con la speranza di aumentare quelle dei fondi privati. Ancora una volta, è proprio la crisi ad indicarci che per arginare la crescente instabilità connaturata al funzionamento dei mercati, sarebbe del tutto controproducente affidare anche larga parte dei redditi dei pensionati alla loro volatilità, che è massima nel settore finanziario dove andrebbero investiti i risparmi previdenziali dei lavoratori. La previdenza a capitalizzazione, specialmente quando gestita con caratteri prudenziali e con le modalità meno costose possibili ai fondi negoziali chiusi di grandi dimensioni, può svolgere un utile ruolo integrativo per quei lavoratori che, oltre a contare già su una adeguata e più sicura pensione pubblica, hanno le possibilità di finanziare una pensione aggiuntiva. Affidare invece un ruolo sostitutivo ai fondi a capitalizzazione, non solo significa accrescere i rischi di distruzione del risparmio previdenziale già ampiamente sperimentati e ricordati dallo stesso Governatore; ma implicherebbe anche uno sforzo di risparmio aggiuntivo che, ancora una volta, sarebbe controproducente rispetto alla necessità urgente di riavviare la crescita.
Spesso, per favorire uno sviluppo dei fondi privati di tipo sostitutivo rispetto alla previdenza pubblica si sostiene, anche strumentalmente, che la spesa di quest’ultimo sarebbe elevata in modo anomalo e peserebbe sul complessivo bilancio pubblico già gravato da un elevato deficit. Non è vero. Da anni, nel Rapporto sullo stato sociale – redatto presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza” – che quest’anno è dedicato proprio alle connessioni tra la crisi e il welfare state e verrà presentato a metà novembre, si dimostra che operando confronti statisticamente omogenei, la nostra spesa pensionistica rispetto al PIL non è superiore alla media europea. Inoltre, il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute d’acconto è attivo per un ammontare che oscilla tra lo 0,8% e lo 0,9% del PIL; dunque il sistema pensionistico pubblico non grava sul bilancio pubblico, ma lo migliora.
Infine, va notato che, data la ristrettezza del nostro mercato borsistico, solo l’1,4% dei contributi ricevuti dai lavoratori e dalle imprese nazionali viene investito dai fondi pensione in azioni di imprese italiane; gran parte va all’estero cosicché un sviluppo eccessivo dei fondi accrescerebbe corrispondentemente il trasferimento di risparmio nazionale a favore dei nostri concorrenti.
Quest’articolo è stato pubblicato anche su il manifesto del 15-10-2009