La crisi solleva interrogativi sul cosa e sul come insegnare nelle scuole e nelle università, per permettere agli studenti di capire quel che sta accadendo
In una scuola elementare di Milano agli alunni della V è stato chiesto di scrivere un tema immaginandosi come giornalisti (con due alternative: come giornalisti sportivi, o invece affrontando questioni di attualità politica). Quasi tutti hanno scelto la prima opzione; tre hanno deciso per la seconda. Il titolo per il “pezzo” che dovevano scrivere: “La storia della crisi italiana”. Traggo alcune righe da uno dei “contributi” che ho avuto modo di leggere:
“Dall’estate scorsa non si parla d’altro: la crisi è arrivata. Colpa di chi, non si sa. Forse colpa dell’Italia stessa e dei suoi governi non troppo “affidabili”. Colpa, forse, dei debiti…Per provare a risolvere il problema il presidente Napolitano ha indicato e suggerito Mario Monti (precedentemente professore di economia) come primo ministro di un “governo tecnico”. Decisione saggia? Sui primi cento giorni di governo c’è molto da dire…La situazione migliorerà? Potrà dircelo solo il tempo”.
E poi l’attenzione su “lavoro e disoccupazione”:
“Avere un buon posto di lavoro è difficile, soprattutto per chi non ha fatto l’università, ma anche chi ha fatto tutto il percorso di studi fatica a trovarlo. E’ un sistema davvero brutto perché più della metà dei giovani è disoccupata, e se qualcosa non cambia anche molti adulti lo saranno, tra poco. Ci sarebbero molte cose da dire, aspettiamo di conoscere quali saranno le nuove proposte del governo”.
Imbattermi in questa iniziativa è stata una sorpresa. Assolutamente eccezionale che nei percorsi scolatici si portino gli alunni a farsi domande di questo tipo (e non soltanto in una classe delle elementari, anche nei licei, negli istituti tecnici e professionali; e nelle aule universitarie): luoghi dove ci si prepara, si impara – così dovrebbe essere – a entrare nel mondo. I contesti, le situazioni, in cui in qualche modo si dovrebbe insegnare a guardarsi intorno, nel mondo. La questione è complessa, ovviamente. Il punto è che non se ne parla. Illuminante il titolo di un articolo di un professore e scrittore, Christian Raimo, pubblicato nel dicembre 2011 su Repubblica (l’ho conservato): “Ma a qualcuno interessa educare noi insegnanti”? Basterebbe già questo, ma c’è poi un’altra frase, pesantissima: “C’ è un deficit spaventoso su cosa voglia dire insegnare e apprendere oggi….”. Nell’articolo si mettono anche in luce esperienze positive, che certo ci sono. Ma appunto si insiste che sono “casi”, e sempre frutto di iniziative individuali. E ancora (perché qui mi sento coinvolta direttamente): “E’ possibile che la maggior parte dei docenti sia totalmente digiuna di scienze cognitive e di scienze sociali in generale?”.
Penso alle decine di migliaia di giovani universitari che studiano nel mondo delle scienze sociali: i corsi hanno impostazioni le più svariate, moltissimi i temi. Certo ci saranno situazioni, e docenti, che in questa fase hanno messo almeno per una volta da parte i programmi ufficiali e aperto una conversazione/discussione con i loro studenti sulla “crisi”, e su quel che sta succedendo attorno a loro (e che riguarda loro più direttamente, ovvio). Ma è comunque qualcosa di inconsueto, è una scelta “anticonformista”. Partendo dall’ “educare noi insegnanti”, facciamocele domande di questo tipo: dunque al centro il cosa, e come, “insegnare”. In particolare per quegli “insegnamenti” (faccio fatica a usare questa parola) che dovrebbero aiutare a “leggere il sociale”.
E un secondo commento sul “caso” della scuola di Milano.
Naturalmente se un’allieva della scuola primaria riesce a scrivere su questi temi con testi così attenti e informati, significa che vive esperienze in qualche misura “speciali”: situazioni in cui in casa si leggono i quotidiani o si guardano, in televisione, programmi che si occupano di politica, genitori con i quali di queste cose si parla senza semplificare, e disponibili a coinvolgere i figli su temi complessi. In grado di cogliere con interesse uno stimolo “scolastico” davvero inatteso, come questo: ricordiamoci che nel percorso delle scuole elementari ci si occupa di vicende della storia passata, i greci e i romani e gli etruschi, certo non di problemi a noi vicini.
Dunque arriviamo al dato – scontato, ma che ogni tanto dovrebbe essere rimesso al centro dell’attenzione – delle differenze di “classe sociale” (così si diceva una volta, e la si considerava una questione cruciale: in sociologia, ma non solo!). E dei meccanismi delle disuguaglianze, della selezione (aggiungo: anche cosa significa “meritocrazia”, parola problematica emersa in dibattiti recenti). La scuola nei nostri sistemi democratici: un tema certo non nuovo. Attuale, e pesante.
Università Bicocca, Milano. A partire da gennaio 2012 una serie di incontri con il titolo “Per rimetterci in piedi”. Si affrontano questioni della fase politica attuale, si presentano “proposte”. Anche, in qualche caso, corsi tenuti nei diverse ambiti degli insegnamenti universitari in Scienze Politiche. Ancora, i titoli di due pubblicazioni recenti, edizioni dell’Asino: “Come siamo cambiati” (a cura di Giulio Marcon), e “Dove stiamo andando” (di Andrea Toma). Nel 2012 ne avremo molte, di occasioni di questo tipo. Fino ad ora titoli di interventi e dibattiti sono stati prevalentemente caratterizzati da pessimismo, letture negative del futuro. Un sollievo, che si cominci a cambiare: le parole, il modo di guardare gli anni davanti a noi, e appunto anche “noi”. Non siamo tutti uguali (né noi italiani, né gli “umani”). E sembra sensato guardare alle diverse componenti della gente in mezzo a cui viviamo questa fase storica (siamo sette miliardi, non dimentichiamolo).