La retorica della tutela del lavoratore e non del posto di lavoro si riduce a una ben magra figura quando si esamina il testo della delega sulla «flexicurity», il sistema di ammortizzatori sociali previsto dal governo. Del decreto Poletti e del Jobs Act II, che contiene tra l’altro il via libera al demansionamento e allo […]
Lo scontro politico sul Jobs Act, con la manifestazione sindacale di oggi, entra nel vivo, ed è dunque opportuno ricordare alcuni punti centrali del conflitto, tenendo conto di ulteriori elementi che emergono dalla legge di stabilità dell’anno 2015:
1) Il primo punto è ovviamente quello della permanenza, oppure, della abrogazione o, al contrario, dell’estensione a tutti i lavoratori della fondamentale norma dell’art. 18 dello Statuto, della cui valenza prevenzionistica di licenziamenti arbitrari e antiricattatoria, si è detto più volte, sottolineando la sua funzione di garanzia della dignità del lavoratore che rende logica e naturale la sua estensione e non già la politica della restrizione o abrogazione che il governo Renzi persegue con molta aggressività.
Le notizie di stampa indicano lo strumento o modalità che il governo intenderebbe utilizzare e di cui la legge delega, notoriamente «in bianco», su questo argomento invece tace: la via è quella di rendere insindacabile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (o economico-produttivo) che così diverrebbe una comodissima scappatoia, «travestendo» da licenziamenti per motivo oggettivo, anche i licenziamenti in realtà dipendenti da intenti disciplinari o discriminatori.
Le «belle addormentate» della cosiddetta «sinistra» del Partito democratico sono dunque avvertite (non necessita messa in guardia, per fortuna, Fassina) di non accettare il compromesso della inoppugnabilità dei licenziamenti per motivo oggettivo in cambio di una promessa permanenza dell’art. 18 per i licenziamenti discriminatori e disciplinari, perché si tratterebbe di una salvaguardia solo apparente.
La legge di stabilità aggiunge ora una tessera al mosaico, perché il governo gioca una carta pesante: lo sgravio contributivo al 100% di durata triennale per i contratti a tempo indeterminato che saranno stipulati nel corso dell’anno 2015. Il messaggio che viene inviato ai datori di lavoro è chiaro: poiché nelle previsioni del governo all’inizio del 2015 l’art. 18 sarà stato eliminato almeno per le nuove assunzioni, che saranno anche rese economiche dallo sgravio degli oneri contributivi, nulla dovrebbe più ostare all’incremento dell’occupazione da parte delle imprese.
Notiamo, en passant, che come sempre nei proclami di Renzi «il fumo prevale sull’arrosto» perché la nuova incentivazione, ai sensi degli artt. 11 e 12 della legge di stabilità, assorbe e sostituisce lo storico incentivo previsto dall’art. 8 comma 9˚ della legge n. 407/1990, che in tutti questi anni ha assicurato agli imprenditori del sud e agli artigiani che effettuino una nuova assunzione, proprio uno sgravio contributivo del 100% per tre anni e, agli altri imprenditori del 50%.
La differenza risiede soprattutto nel fatto che per la legge n. 407/1990 doveva trattarsi di disoccupati o cassaintegrati da più di 24 mesi, mentre per la legge di stabilità è sufficiente che si tratti di disoccupati da più di 6 mesi. Questa apparente miglioria nasconde però un serissimo problema: infatti, come si evita che le imprese procedano a un accelerato turnover tra «vecchi» occupati, soggetti a contribuzione previdenziale e ancora tutelati dall’art. 18 e, «nuovi» assunti «alleggeriti» da questi «fardelli»?
Occorre ribadire il normale principio che l’incentivazione dovrebbe comunque essere riservata solo ad assunzioni che realizzino «incrementi occupazionali netti» sia rispetto all’anno precedente sia, rispetto all’anno successivo all’assunzione incentivata.
Ma è proprio il mantenimento dell’art. 18 e, meglio ancora, la sua estensione a tutti che costituirebbe il più efficiente antidoto verso quel probabile turnover «drogato», che si capisce senza sforzo nella legge di stabilità e mira a eliminare il prima possibile la presenza dell’art. 18 nell’ordinamento.
2) Il secondo punto è dato dalla critica e dal rifiuto della flexicurity praticata dal governo Renzi e cioè da quel sistema di ammortizzatori sociali che secondo la sua propaganda dovrebbe rendere indolore – lesione della dignità a parte – la perdita della stabilità tutelata dall’art. 18 dello Statuto, grazie alla garanzia di un adeguato reddito di transizione e di rapidi e più agevoli canali di ricollocamento.
È stato ripetuto sino alla nausea che al lavoratore le garanzie e tutele vanno ora assicurate «nel mercato» e non più come, voluto dalla legislazione statutaria, «nel rapporto di lavoro».
Ma questa retorica della tutela del lavoratore e non del posto di lavoro si riduce a una ben magra figura quando si esamina ciò che emerge dal testo della delega con riguardo alla supposta flexicurity: gli ammortizzatori conservativi, ossia, le integrazioni salariali nel corso del rapporto di lavoro vengono gravemente limitate perché scompare la cassa integrazione per chiusura aziendale nonché quella per procedura concorsuale e, altresì, la cig «in deroga», che è stata in questi anni indispensabile e per la quale infatti la legge di stabilità prevede un ultimo finanziamento per l’anno 2015. Alla fine la flexicurity del governo Renzi si riduce tutta a un modesto incremento della indennità di disoccupazione ordinaria (realizzato dalla legge «Fornero» che lo ha anche ribattezzato Aspi) con la previsione a regime di una durata di 12 mesi e di 18 mesi per i soli lavoratori ultra cinquantenni, ma con la gravissima scomparsa, per converso, dell’indennità di mobilità di lunga durata da 2 a 4 anni, dell’indennità di mobilità dall’art. 7 della legge n. 223/1991.
Senonché, il Jobs Act sembra voler fare ben di peggio, giacché il progetto di legge delega introduce un criterio conformativo della futura indennità – detta nAspi (o nuova Aspi) – che è l’esatto contrario del principio di sicurezza sociale, dal momento che prevede che la durata dell’indennità di disoccupazione sia proporzionale alla storia contributiva del lavoratore. Il che è come dire che chi ha lavorato più a lungo avrà una indennità più lunga e chi invece ha lavorato poco perché precario l’avrà breve o brevissima.
Un criterio, in altre parole, di tipo assicurativo che nulla ha a che fare con lo scopo di sovvenire al bisogno che ovviamente è maggiore per chi nel tempo passato ha lavorato poco e in modo discontinuo.
3) Proprio la condizione dei precari è la terza e forse maggiore falsa promessa del Jobs Act perché la legge delega, al solito, non prevede nulla di minimamente determinato rispetto alla eliminazione o riduzione delle varie tipologie di contratto precario, anzi, nella misura in cui prevede che tutele o mini-tutele per la disoccupazione vadano introdotte anche per le collaborazioni coordinate e continuative fa supporre che implicitamente, voglia rilanciare questa insidiosissima figura di lavoro parasubordinato che invece lo stesso decreto legislativo 276/2001 aveva ristretto in ambiti limitatissimi consentendo per il resto solo collaborazioni «a progetto».
Del Jobs Act II, che tra l’altro contiene anche perle quali la liceizzazione del demansionamento e dello spionaggio elettronico del lavoratore sul posto di lavoro, proprio nulla merita di essere salvato, così come anche del Jobs Act I (ovvero il «decreto Poletti»), che ha introdotto i contratti a termine «acausali» e che ampiamente merita di essere abrogato o annullato per molte ragioni a suo tempo esposte e che qui sarebbe lungo ripetere. Non si tratta, però di ritornare alla situazione determinatasi con la legislazione «Fornero» e neanche a quella immediatamente precedente. Una vera riforma ma in senso progressista e universalista del diritto del lavoro è necessaria e sicuramente possibile, ma per questo occorre creare nuove aggregazioni politiche che possono nascere proprio nella temperie della lotta contro il Jobs Act e le teorie neo-liberistiche del governo Renzi.
articolo apparso su il manifesto del 25 ottobre 2014