Nella “tribal belt”, la grande regione dove vivono le popolazioni adivasi, si concentrano le ricchezze minerarie dell’India, che hanno generato conflitti e ingiustizia sociale, spiega la giornalista Marina Forti
Con un tasso di crescita vicino al nove per cento nell’ultimo decennio, l’India è una delle economie emergenti e una delle potenze economiche del futuro. Nel mese di marzo il rapimento da parte di gruppi armati di due cittadini italiani, Claudio Colangelo e Paolo Bosusco, poi liberati, ha fatto però emergere un aspetto meno noto di questo Paese: «montagne remote, popolazioni indigene e guerriglieri, sembrano gli ingredienti di una storia d’altri tempi e di un altro mondo», spiega Marina Forti, giornalista del Manifesto e autrice di numerosi reportage dall’India centrale. In realtà non si tratta di «una storia dell’altro mondo e i soggetti in campo non sono residuali. Anzi, tutto questo è perfettamente dentro al mondo globalizzato in cui viviamo», aggiunge la Forti.
Ma facciamo un passo indietro. L’India ha cominciato a liberalizzare la propria economia a partire dal 1993 e nel 2003 è stata inserita dagli analisti di Goldman Sachs tra i Paesi che avrebbero cambiato l’economia mondiale: i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Secondo le previsioni di questi analisti, nel giro di trent’anni i Pil combinati dei paesi Bric avranno superato la somma dei G6 (Usa, Regno unito, Francia, Germania, Italia e Giappone), mentre nel 2050 la Cina sarà la più grande economia mondiale, seguita dagli Stati Uniti, con l’India al terzo posto. Una buona parte della crescita indiana degli ultimi vent’anni è dovuta alle “tecnologie dell’informazione”, in particolare la produzione di software o servizi per le imprese occidentali che qui hanno delocalizzato contabilità, archivi, tele-marketing e call center. Ma non c’è solo questo, perché in India si sono moltiplicati i progetti industriali, sono state create le cosiddette “zone economiche speciali” e sono stati fatti grandi investimenti per aumentare l’estrazione di materie prime. «L’India è una nazione ricca di risorse minerarie» spiega la Forti, il Paese infatti «è il secondo produttore mondiale di cromite e talco, il terzo produttore di carbone, il quarto di ferro, è inoltre un importante produttore di bauxite, quindi di alluminio, e di molti altri minerali». Il carbone estratto è utilizzato per oltre il 70 per cento per produrre energia elettrica, mentre il resto alimenta gli altiforni delle acciaierie. Tuttavia la produzione indiana non arriva a soddisfare il fabbisogno interno e l’India è costretta a importare ancora altro carbone. Anche il ferro è consumato o lavorato internamente, soprattutto per produrre l’acciaio di cui il Paese è esportatore. L’estrazione di risorse minerarie si concentra quasi completamente in una zona particolare dell’India centrale: «è la mineral belt, la fascia dei minerali, si tratta di una regione montagnosa che attraversa cinque Stati centro-settentrionali». Tre Stati in particolare, Jharkhand, Chhattisgarh e Orissa, concentrano al proprio interno il 70 per cento dei giacimenti di carbone dell’India, il 56 per cento di quelli di ferro, il 60 per cento di quelli di bauxite: «risorse enormi che attualmente sono solo in parte sfruttate» afferma la Forti. Queste stesse zone sono anche il cuore della tribal belt, «la regione dove vive gran parte della popolazione nativa del subcontinente indiano, gli adivasi, gli “abitanti originari”. Sono una minoranza consistente, l’8,6% della popolazione indiana, cioè quasi 100 milioni di persone». Se si sovrappongono le due mappe, quella dei giacimenti minerari e quella delle popolazioni native, si vedrà che queste coincidono quasi alla perfezione: «è questa la radice del conflitto» afferma la Forti. Infatti «la storia delle regioni “tribali”, e in generale delle regioni rurali più remote, è una storia di esproprio e di esclusione, già prima delle miniere». Non esistono cifre precise su quante persone siano state obbligate a lasciare le proprie case e i propri terreni a causa di miniere, dighe, fabbriche e altre opere, ma diversi studi «parlano di oltre 20 milioni di “sfollati involontari” in 50 anni per fare posto alle varie grandi opere dello sviluppo». L’allontanamento delle popolazioni adivasi dalle proprie terre è iniziato negli anni Cinquanta quando cominciò lo sfruttamento del legname e dei prodotti delle foreste della tribal belt, da allora il costante accaparramento delle terre migliori da parte degli imprenditori forestali ha costretto le popolazioni locali a continui spostamenti e a un progressivo impoverimento. Oggi la situazione è decisamente peggiorata in seguito alla rapida espansione delle attività estrattive che stanno riducendo ulteriormente le superfici coltivabili e stanno inquinando terreni e falde acquifere. «Lo sviluppo in queste zone arriva solo sotto forma di miniere, acciaierie o dighe che comportano requisizioni di terre, foreste abbattute e masse di persone costrette a lasciare tutto» spiega la Forti, che cita il ricercatore indiano Aditya Nigam del Centre for the Study of Developing Societies, per «in queste zone c’è fin troppo sviluppo, ma nessun progresso: niente scuole, niente ospedali, niente strade, in queste zone mancano i servizi più basilari».
L’industrializzazione forzata e l’espulsione dalle terre hanno peggiorato le condizioni di vita degli abitanti della tribal belt e, una volta persa l’economia di sussistenza basata sull’agricoltura e sulla raccolta di frutti della foresta, gli adivasi sono «finiti per essere più poveri, perché per loro è difficile anche lavorare nelle industrie che si sono impossessate delle loro terre, nella maggioranza dei casi, infatti, non hanno le qualifiche necessarie. Così finiscono ammassati in bidonvilles urbane, o magari a scavare come abusivi al margine delle miniere di carbone per cavarne qualcosa da vendere in città».
L’avanzata di fabbriche e miniere ha accelerato l’espulsione dei nativi dalla terra e inasprito vecchie ingiustizie. Per questo motivo sono nati numerosi movimenti di protesta e di resistenza contro lo spostamento forzato delle popolazioni, contro la requisizione delle terre, contro acciaierie e miniere. Tra questi movimenti uno dei più influenti è quello dei maoisti o naxaliti, nome derivante da una famosa rivolta contadina nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala occidentale, avvenuta nel 1967. Dopo un periodo di pausa durato vent’anni i maoisti hanno ripreso la lotta armata sul finire degli anni Novanta e «oggi si propongono come i difensori dei diritti dei nativi, buona parte dei militanti, infatti, sono “tribali”, anche se la leadership è composta da persone istruite e di casta alta, per lo più brahmini». La risposta del governo indiano all’offensiva maoista è stata molto dura e nel 2009 è stata lanciata l’operazione Green Hunt. La Forti spiega che «doveva essere una “operazione massiccia e coordinata” contro le “roccaforti” dei maoisti, un affondo finale contro la guerriglia che invece è culminata in un disastro». Gli unici risultati prodotti dalla «guerra ai maoisti» sono stata la criminalizzazione dei movimenti di opposizione e la nascita di gruppi paramilitari. Infatti, «nell’immaginario dell’opinione pubblica urbana indiana i movimenti di resistenza e protesta in quelle zone vengono tutti identificati come maoisti. Ma non è così, anzi: molti movimenti politici, di massa, non armati sono stati loro malgrado etichettati come maoisti e criminalizzati». Inoltre sono nati molti gruppi paramilitari come la Salwa Judum, o “autodifesa”: «si dice che siano organizzazioni spontanee, invece sono milizie armate e addestrate dal governo dello Stato di Chhattisgarh, e mandate a fare il vuoto attorno ai “terroristi”. Presto si sono diffuse notizie di villaggi bruciati, uccisioni, stupri». Dopo anni di denunce è stato sentenziato che le milizie erano irregolari: «lo Stato non può armare civili per combattere altri civili ha affermato la Corte suprema, ma in Chattisgarh le vecchie milizie hanno solo cambiato nome o sono state tramutare in “ausiliari di polizia”».
«In India non si è trovato ancora un equilibrio tra crescita e stabilità della società», spiega Marina Forti, «e oggi siamo di fronte a due Indie che si affrontano, una arcaica, quella dei contadini e dei maiosti, e una moderna, quella del boom economico. L’india deve fare in modo che i benefici di questa crescita arrivino davvero a tutta la popolazione, per questo è necessario affrontare la questione della redistribuzione, non solo economica, ma anche di potere politico, ma questa parola per il momento non sembra far parte del vocabolario del leader indiani».