La “spending review” sugli incentivi alle imprese, affidata all’economista bocconiano, ci va giù con l’accetta. Per stabilire quali incentivi meritano e quali no, ricorre al solo criterio dell’addizionalità. Con metodi e argomenti un po’ deboli, che sollevano parecchi dubbi analitici
Il rapporto «Analisi e raccomandazioni sul tema dei contributi pubblici alle imprese» predisposto, in collaborazione con altri esperti e giovani collaboratori, dal super consulente Francesco Giavazzi, dovrebbe costituire un ulteriore tassello al processo di spending review avviato dal governo Monti.
La proposta, in estrema sintesi, consiste in un taglio stimato in 10 miliardi di euro degli incentivi alle imprese da destinare alla riduzione del cuneo fiscale (la differenza tra il costo del lavoro per l’impresa e il salario netto per il lavoratore). “Ciò – come scritto a pagina 20 del rapporto – per far sì che i risparmi conseguiti tagliando i trasferimenti ad alcune imprese siano redistribuiti su tutte le imprese, creando quindi un ampio consenso favorevole a questi interventi”. Il presidente di Confindustria ha infatti apprezzato: “ben vengano i risparmi se ci vengono restituiti con meno tasse” (Il Sole 24 Ore, 20 luglio).
Che in Italia il sistema degli incentivi alle imprese debba essere profondamente riformato e razionalizzato è cosa risaputa e condivisibile. Meno condivisibile è che tale faccenda riguardi esclusivamente i rapporti tra governo e imprenditori e, quindi, possa risolversi con uno scambio. Procedere in questo modo significa avere in mente un concetto “ottocentesco” di impresa, esclusivamente funzionale agli interessi privati di chi la possiede. Se così fosse, perché un governo dovrebbe distribuire incentivi?
Gli incentivi alle imprese esistono e rappresentano lo strumento chiave delle politiche industriali che tutti i governi adottano per migliorare il benessere collettivo. È nell’interesse pubblico, e non in quello esclusivo degli imprenditori, che gli impianti industriali consumino meno energia e siano sempre più sicuri, che si assumano donne e giovani qualificati, che si investano adeguate risorse per la Ricerca e Sviluppo (R&S) e la formazione professionale. È anche di pubblico interesse che nascano e prosperino nuove iniziative imprenditoriali.
Questi sono alcuni esempi di attività che generano consistenti benefici sociali, spesso superiori a quelli privati. Ed è perciò che, in questi ambiti, le imprese private tendono ad investire poche risorse ed è quindi necessario il sostegno pubblico. Inoltre, come da tempo stabilito nelle linee guida dell’Unione Europea, gli incentivi pubblici devono privilegiare le imprese che nascono e si sviluppano nelle aree depresse e, considerati i loro endemici svantaggi, quelle di dimensione piccola e media.
Valutare tutti i costi e i benefici, privati e sociali, che derivano dagli interventi pubblici a sostegno delle imprese è un’operazione decisamente complessa, ma necessaria se si vuole stabilire il loro diverso grado di efficacia. Nel rapporto Giavazzi la questione viene risolta ricorrendo ad un solo criterio: quello dell’addizionalità. Se un incentivo pubblico non da luogo ad investimenti aggiuntivi da parte delle imprese beneficiarie non vi è addizionalità e, quindi, non è efficace. Tale conclusione è assai discutibile non solo perché in questo modo non vengono presi in considerazione i benefici sociali generati dall’intervento pubblico, ma anche perché lo stesso criterio viene impiegato in modo restrittivo.
Supponiamo, per semplicità, che l’incentivo consista in un sussidio di 10 euro; che in sua assenza le imprese investano in R&S 100 euro e che invece con il sussidio emergano tre situazioni: le imprese agevolate investono, rispettivamente, 120, 110 e 100 euro. Consideriamo gli estremi. Il primo caso è quello ottimale in cui si verifica l’addizionalità dell’incentivo: infatti ai 100 euro che le imprese avrebbero speso comunque si aggiungono i 10 euro del sussidio più altri 10 di investimento autonomo. Nel terzo caso si ha addizionalità negativa: le imprese spendono 100 come avrebbero fatto comunque e quindi “intascano” i 10 euro del sussidio destinandolo ad altre attività: l’incentivo è del tutto inefficace e, quindi, comporta uno spreco di risorse pubbliche. Il caso intermedio è diverso. L’addizionalità è nulla, non vi sono state spese aggiuntive da parte delle imprese, ma l’investimento è comunque aumentato per un valore pari all’incentivo (da 100 a 110). Tutto ciò, a sua volta, potrà dar luogo ad ulteriori benefici sociali (o, nel gergo degli economisti, esternalità positive) che, manifestandosi in un periodo medio o lungo, non possono essere valutate con il calcolo di addizionalità sopra esemplificato.
Ora, se si guarda all’evidenza empirica, particolarmente copiosa per gli incentivi alla R&S, i risultati sono i seguenti. La metà degli studi effettuati a livello internazionale ha verificato la presenza di addizionalità. Un quarto ha concluso che l’addizionalità è stata nulla mentre per il restante quarto vi è stata addizionalità negativa. Gli studi da cui emerge la situazione peggiore (i sussidi pubblici si sostituiscono invece che sommarsi agli investimenti privati) rappresentano quindi il 25% del totale. Inoltre, anche in questi casi, gli autori raramente si spingono fino a concludere che l’incentivo vada cancellato. Infatti, la cautela è d’obbligo per una serie di ragioni: da un lato, le valutazioni si basano su tecniche di stima soggette a margini di errore; secondariamente, prima di abbandonare una misura è bene verificare se è stata gestita correttamente; infine, come abbiamo argomentato in precedenza, il solo criterio di addizionalità non è sufficiente per stabilire l’inefficacia di un intervento pubblico.
Il rapporto Giavazzi, invece, lascia intendere che è possibile identificare quali incentivi vadano tagliati (molti) e quali mantenuti (pochi) in modo oggettivo o “in coerenza con gli esiti dell’analisi economica” (si veda il primo articolo dello schema di decreto che viene proposto). Sostiene inoltre che nel 50% degli studi effettuati gli incentivi pubblici alla R&S sono risultati inefficaci. Cosa che è avvenuta solo nel 25% dei casi (e aggiungiamo, soprattutto negli Stati Uniti, meno in Europa).
Accanto all’uso parziale dell’evidenza empirica (ad esempio, gli studi italiani che hanno verificato la presenza di addizionalità degli incentivi alle imprese non vengono citati), il rapporto contiene argomentazioni così capziose o poco eleganti da risultare, sinceramente, imbarazzanti. A pagina 9 del rapporto si sostiene che, nel caso in cui i giovani imprenditori percettori di finanziamenti “scappino con la cassa” (così nel testo), dati i tempi lunghi della giustizia civile, “non è detto che le garanzie pubbliche siano il modo più efficiente per favorire la nascita di imprenditori giovani”. Ergo, ridimensioniamo le misure di garanzia? A pagina 10 si afferma che “nel caso di sussidi erogati alle imprese nelle aree in ritardo di sviluppo, c’è la possibilità che i contributi pubblici vengano intercettati dalle Mafie”. Ergo, sarebbe meglio non agevolare le imprese meridionali, già penalizzate dalla criminalità organizzata? Sulla stessa scia, a pagina 14 si dice che “le leggi che regolano i contributi pubblici alle imprese cambiano spesso, e ciò induce incertezza con effetti negativi per le imprese”. Ergo, invece di rendere gli incentivi stabili e certi, li riduciamo?
Fino a che punto la fase di emergenza in cui ci troviamo può giustificare l’adozione di misure così drastiche sulla base di argomenti così deboli?