Un ricordo tra il personale e il politico-sindacale della figura di Giorgio Galli, politologo milanese scomparso in questa coda del 2020.
Giorgio Galli è stato tra i milanesi più colti, attivi, carichi di affetto umano e passione politica che il Paese abbia potuto apprezzare, nonostante il suo riserbo e la misura con cui sapeva criticamente anticipare i dirompenti cambiamenti che avremmo dovuto affrontare, fino a culminare in questa fase di tormentata transizione.
L’amore di Francesca l’avrà ben confortato anche in questa ultima fase di presenza “sveglia” e lucida tra noi: un tempo in cui non è stato più possibile – almeno per me “fuori zona” – avere con loro frequentazioni dirette. Porto così a lei questo mio ricordo, lungo di più di cinquant’anni, dato che la presenza di Giorgio e Francesca ha rinfrancato e spesso rischiarato molti passaggi della mia esperienza umana, politica e sociale ed è stata ricambiata dalla stima – mia e di Bruna – fino alla confidenza con loro ed i loro interessi più intensamente coltivati.
Ancora al Ginnasio, con padre bergamasco, rigorosamente improntato ad un pluralismo che escludeva il PCI, venivo sollecitato a leggere e discutere le note di due politologi di valore: tal Ricciardetto – pseudonimo per un reazionario e ultra-filoatlantico patrocinatore delle maggioranze silenziose – e tal Giorgio Galli, sobrio ma documentatissimo commentatore di dati e eventi sociali, già proteso a cogliere quel vento laico, socialista e di sinistra, che avrebbe di lì a poco soffiato sulla politica e sull’intera società italiana. Scoprirò ben presto che il primo era preistoria resistente e che il secondo avrebbe seguito da vicino, anche nelle ansie e nelle generosità straordinarie e misteriose, quel periodo irripetibile che – col ’68-69 – avrebbe indotto anche un ricercatore da poco laureato a trasferire il suo tempo nelle sedi sindacali, inondate da tute blu che tornavano a scuola con le 150 ore. In quelle aule così insolite, Galli era citato con affetto e per l’autorevolezza e il rigore scientifico con cui annunciava, preoccupato, un’incipiente crisi della democrazia, che oggi esplode e precipita in tutto il pianeta.
Giorgio ha scritto e lavorato con intensità in quegli anni ’70-80 così importanti, spesso in solitudine e con tesi originali anche su questioni drammatiche come il terrorismo rosso e le stragi fasciste, dettate dalla consapevolezza che la cronaca e la vulgata andassero indagate più a fondo e che il nostro Paese fosse al centro di disegni nascosti, che ne minavano l’impianto democratico e l’ossatura costituzionale.
Come a flash, più avanti, lo ricordo con gratitudine nel 1997, quando la mia richiesta di un suo contributo prestigioso in preparazione del Congresso della CGIL Lombardia, mi ripaga di una sua lezione profonda e innovativa sul ruolo del sindacato e sulle tradizioni solidali presenti nella storia e nella cultura della nostra regione, ferita dall’onda leghista. Era l’occasione per presentare una documentazione multimediale ritenuta allora rivoluzionaria (un CD-ROM interattivo con il software e l’abbonamento gratis ad Internet distribuito in 70.0000 copie nei luoghi di lavoro!), rivolta alle lavoratrici e ai lavoratori che passavano dal ciclostile alla tastiera del computer. Giorgio ne era lietissimo e mostrava tutta la sua soddisfazione per un’organizzazione di massa che si dotava con preveggenza di strumenti di partecipazione adeguati alla rivoluzione digitale già in corso.
Più avanti, una sorpresa: Giorgio è tra i più profondi studiosi dei legami tra le culture rese marginali dalla svolta scientifica del XVII secolo o tra la cultura dei circoli più rivoluzionari del XX secolo e le dottrine politiche che occupano lo spazio dell’ufficialità e della ricerca storica. Che esoterismo e politica potessero destare l’interesse e la passione di un politologo di tal calibro nemmeno l’immaginavo. E nemmeno potevo aspettarmi che fosse sostenitore della fuoriuscita dalla tradizione newtoniana con cui si identifica lo sviluppo quantitativo dell’Occidente e una interpretazione non più meccanicistica e determinista del mondo e della società, in base alle teorie rivoluzionarie che la fisica e la biologia hanno introdotto dall’inizio del ‘900. In fondo anticipa con una sua originalità perfino la svolta di Francesco.
Nacquero scambi che finirono col convergere sulla necessità di rendere popolare un salto culturale e scientifico (anche partendo da una revisione della scarsità di contenuti interdisciplinari dentro l’organizzazione degli studi), utilizzando gli strumenti cultural-tecnologici che ne sono derivati, e di “sottrarre alla gestione di cinquecento multinazionali, le più importanti delle sessantatremila sparse per il pianeta, l’interpretazione del mondo che non è quello che viene fatto apparire, da quando, con la rivoluzione relativistica e quantistica, la conoscenza è aumentata in modo esponenziale e sofisticato, ma non trasmesso nella sua essenzialità ed implicazioni sociali e ambientali ai cittadini. Mentre, purtroppo, la politica istituzionale e dei partiti non ha tenuto minimamente il passo”. Sono sue le parole qui riportate, che fanno da commento ad un libro, che lui ha arricchito di una postfazione.
In cui aggiunge con un certo rammarico che “a sinistra si giudica negativamente un potere concentrato in poche mani, ma non ci si attrezza per modificarlo, da quando la democrazia rappresentativa è stata di fatto vanificata da quel medesimo processo di crescita esponenziale e sofisticata della conoscenza, processo opposto a quello ipotizzato dallo stesso illuminismo, che abbinava allo sviluppo della conoscenza quello, convergente, della democrazia e della rappresentanza”.
Sono intuizioni come queste che, assieme ad una vita straordinaria, ci fanno capire quanto Giorgio fosse ancora necessario.
28 dicembre 2020