L’espansione del debito è la norma e il motore del capitalismo globale finanziarizzato. In “Debito sovrano”, Paolo Perulli indaga genesi, dinamiche e conseguenze della folle corsa all’indebitamento che ci rende tutti – Stati, imprese, famiglie, individui – schiavi del mercato (e che non si concluderà bene).
Paolo Perulli è un giurista, professore di sociologia economica e del lavoro. Con una lunga esperienza di ricerche territoriali e aziendali, una originaria formazione sindacale all’Istituto di ricerca della Cgil, da ultimo ha insegnato al dipartimento di Scienze politiche dell’università del Piemonte Orientale. La sua nuova pubblicazione (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020, pp. 316, euro 20) si presenta come una vasta indagine transdisciplinare sull’evoluzione del capitalismo in chiave storica (lungo le tre grandi crisi del ’29, del ’73 e del 2008), filosofica (Marx, Simmel, Weber, Benjamin, soprattutto), geopolitica (l’insorgenza cinese), finanche antropologica e psicologica. La “fase estrema” è quella della presente epoca del capitalismo pienamente finanziario e globale, cioè dell’“economia indebitante”, che induce al debito per produrre altro debito, in una spirale di crescita esponenziale.
Perulli scrive il suo testo senza avere ancora in mano i dati conseguenti alle politiche espansive messe in atto dai governi per far fronte alla pandemia Covid-19 che fanno esplodere il debito pubblico alimentato dai tassi di interesse praticamente nulli adottati delle banche centrali. Risultato: mai così alte le esposizioni degli stati (e delle imprese) dalla seconda guerra mondiale. Siamo da tempo entrati in una fase storica diversa dal capitalismo mercantile o di quello industriale, in cui le infrastrutture finanziarie erano al servizio della crescita della produzione e degli scambi delle merci.
Rimane pur vero che in tutte le epoche le infrastrutture finanziarie sono state la leva della crescita economica, poiché “si diventa imprenditore solo diventando prima debitore” (p. 30) e che il prestito di denaro non è più un peccato dall’istituzione dei Monti di pietà da parte dei francescani (seppure al buon fine di arginare l’usura), ma ora l’ipertrofia dei mezzi di circolazione (obbligazioni collaterali, prodotti derivati, Credit Default Swaps, Electronic Order Book, fino ai Catastrophe bond) è diventata patologica, distruttiva delle forme di economia sociale di mercato, pericolosa per le stesse istituzioni della democrazia liberale, gli stati, infilatisi nel nodo scorsoio del debito bancario privato. Cosicché, scrive Perulli: “Il debito sovrano – per inconsapevole ironia – designa la dipendenza degli stati dai mercati”.
A partire dalle grandi deregolamentazioni e privatizzazioni bipartisan negli anni Ottanta del secolo scorso i circuiti finanziari si sono autonomizzati: i valori dei prezzi delle azioni quotate in borsa non hanno più alcuna diretta relazione con i guadagni delle stesse imprese. “I debiti circolanti nei prodotti e veicoli (finanziari) sono arrivati a superare di 30 volte il capitale delle banche” (p. 69). Il valore dei titoli derivati in circolazione supera dalle 8 alle 10 volte il valore del Pil mondiale. Una situazione evidentemente insostenibile.
Le conseguenze catastrofiche della finanziarizzazione dell’economia, le sue “retroazioni negative”, sono ormai note e persino autocriticamente ammesse negli stessi think tank del capitalismo mondiale: dal Forum di Davos alla Business Roundtable, dai filantrocapitalisti illuminati alle istituzioni finanziarie mondiali. Tant’è che non vale più la pena insistere sul fallimento delle teorie e delle pratiche liberiste: ecocidio e ingiustizia globale, “stagnazione economica secolare” e autoritarismo di mercato, “gigantesco processo redistributivo a favore dei detentori dei capitali”, prestatori di credito e rentier (p. 24), da una parte, e dissipazione delle risorse naturali comuni, dall’altra.
Come spiegare tale irrazionale, apparentemente illogica “regressione” del capitalismo? Prima ancora: come giustificare la sua sostanziale accettazione sociale, senza cioè che si siano aperti conflitti all’altezza dei problemi? Infine, l’ultima cruciale domanda: il capitalismo – per le sue note capacità camaleontiche – sarà capace di autoriformarsi, salvando sé stesso e noi con lui?
Su questi versanti l’analisi di Perulli apre più piste interpretative. È evidente che addossare le colpe alla spregiudicata avidità e all’enorme potere ricattatorio delle élites che dominano i mercati finanziari (banchieri e brokers, vari intermediari di mercato) è una semplificazione consolatoria. Gli “speculatori” sono solo un effetto e non la causa di un sistema. Non sembra plausibile nemmeno l’idea che i giochi alchemici dell’alta finanza farebbero parte di un “universo parallelo”, quasi metafisico, di cui non servirebbe occuparsene, poiché i debiti a questi livelli non potranno mai essere onorati dai comuni mortali. Idea alquanto pericolosa, se pensiamo a come nella storia delle crisi a pagare siano sempre le classi popolari. La stessa uscita dalla grande crisi del ’29 non è avvenuta con il New Deal rooseveltiano, ma con la seconda guerra mondiale. Inoltre, Perulli ci suggerisce di considerare il debito un “rapporto sociale”, politicamente connotato e usato come micidiale dispositivo disciplinante. Così è stato in epoca neoliberale e non c’è motivo di non credere che così sarà anche in futuro.
Per comprendere e fronteggiare l’esplosione dell’“economia del debito” servono quindi spiegazioni più complesse e più difficili da mettere in pratica. Una spiegazione che avanza Perulli è che la tecnica e la finanza, in realtà, si siano riunite (“tecnofinanza”): “Mente finanziaria e corpo tecnologico del capitalismo sono intrecciati globalmente” (p. 53). La realizzazione di tecnologie informatiche (pensiamo, solo per fare un esempio, alle piattaforme digitali che funzionano tramite trasmissioni satellitari) richiede una immensa disponibilità finanziaria di capitale di rischio, tale da potere permettere alle imprese innovative perdite iniziali miliardarie, nella speranza di vincere la scommessa competitiva e mettere fuori mercato gli antagonisti. In questi casi la finanziarizzazione non funziona come semplice surrogato allucinogeno alla stagnante crescita dei rendimenti del capitalismo industriale, ma diventa (di nuovo) il motore dello sviluppo.
Denaro e Internet appaiono come i “sovrani di un mondo senza statualità” (p. 179). “Sostituti tecnici di Dio” – suggerisce Perulli rileggendo Benjamin. Quantomeno sono in grado di alimentare la promessa di benessere e di elevazione sociale, rinnovando e rilegittimando l’etica economica del capitalismo. Arricchirsi per consumare non è solo un piacere personale, è un dovere sociale. Ciò consente di mantenere alto il consenso popolare attorno alla retorica del capitalismo della rivoluzione tecnologica permanente, ora digitale e green. Il capitalismo può così apparire ancora utile, responsabile, persino umano e benefico nella misura in cui diffonde le sue mercanzie a tutti gli individui solvibili sul mercato-mondo.
Pensiamo a cosa significa l’attivismo filantropico dei miliardari (tipo Melinda e Bill Gates in Africa, nella ricerca biomedica e del cambiamento climatico) e delle fondazioni bancarie. I banchieri e gli imprenditori-guru delle nuove tecnologie, che appaiono così diversi nei modi di fare e negli stili di vita, sono in realtà accumunati nella ricerca spasmodica di denaro, solidali nel perseverare nell’economia dell’indebitamento universale. Nemmeno le enormi differenze culturali e valoriali tra Occidente e Oriente reggono di fronte alla rivoluzione tecno-finanziaria. Cambiano le sovrastrutture politiche, non la sostanza. È così che “il capitalismo liberale si sente spiazzato” rispetto ai successi di altre forme di ibridazione che ha assunto il capitalismo nella sua trionfale marcia globalizzante: di stato in Cina, autocratico in Russia, feudale negli Emirati arabi, teocratico in Israele, clientelare in America latina, castale in India (p. 276).
Per Perulli – e molti analisti con lui – viviamo nel rischio di un collasso sistemico dovuto a una inevitabile prossima crisi finanziaria da debito, tale per cui “il capitalismo non può sopravvivere così come è attualmente”, pena non escludere un “finale apocalittico” (p. 210). Il capitalismo quindi dovrebbe superare sé stesso, rimettere in discussione le sue basi ontologiche, le sue istituzioni fondanti: impresa privata, mercato libero e stato in funzione di regolatore efficientizzatore. Perulli invita le forze intellettuali critiche che agiscono nella società a creare le condizioni e i presupposti di una “nuova situazione sociale”, a “ripensare il ruolo dell’economia nella società” (p. 200) nella pluralità (p. 203), a sviluppare l’autocoscienza di “un nuovo tipo umano capace di pensarsi in relazione con gli altri” (p. 203). “Una antropologia utopica che vive nella speranza” (p. 243).
Missione impossibile? No, spiega il nostro autore: “È vero che il denaro è penetrato in ogni campo della vita, ma è altrettanto vero che sempre più persone si dedicano a forme gratuite di prestazione sociale per una parte del loro tempo. Coltivare questa varietà di regimi di erogazione è il compito di ogni società evoluta” (p. 207). Esistono alla base della società un “soggettivismo etico” (p. 271), uno spirito cooperativo, un senso dell’equità e della solidarietà che si esprimono attraverso “esperienze locali modeste e circoscritte”, ma utili per “cominciare a produrre la crisi del paradigma epistemologico precedente (…) guardare in modo nuovo alle cose vecchie (…) fornire interpretazioni. Raccogliere pezzi di esperienza dentro il vecchio paradigma e trasformali in frammenti di un nuovo paradigma ancora da fare” (p. 272). La convinzione è che la sfera politica vada ricostruita localmente, secondo “una visione che dal basso risalga attraverso le scale, secondo una transcalarità globale (…). Mediante una miriade di iniziative micro/macro, si potrà risalire la china verso una democrazia globale” (p. 280).
Come sappiamo bene, esistono forme locali e sociali di organizzazione della produzione nell’economia ecosolidale e trasformativa e nell’imprenditoria non orientata al profitto, che Perulli incoraggia: “Non importa che i mercati siano piccoli, di nicchia o di ‘nido’ [nested markets, mercati locali frugali]; ciò che conta è che in questi mercati il produttore si annida, appunto, per la sua specialità, e nessuna concorrenza lo spazzerà via” (p. 231). Piccole azioni che pensano in grande.
Paolo Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020, pp. 316, € 20