Nell’Ue il mercato coincide col territorio dell’intera Unione, mentre i meccanismi di protezione dei lavoratori sono governati quasi esclusivamente dagli Stati membri
Le imprese italiane stanno davvero trasferendo le produzioni in altri Paesi? Sulla stampa si rincorrono notizie talvolta confuse. Quest’estate, ad esempio, destò scalpore la società Firem di Formigine, in provincia di Modena, che tentò di spostare i macchinari in Polonia. Più di recente, la Electrolux friulana, controllata da una società svedese, ha minacciato di delocalizzare la produzione sempre in Polonia se i lavoratori non avessero accettato una riduzione degli straordinari e alcune modifiche (in peggio) delle condizioni di lavoro. Certo, dietro a questo fenomeno, le cui dimensioni reali non sono chiare, sta anche il fatto che molte produzioni italiane sono a basso valore aggiunto e, quindi, che per tali imprese è razionale ed “efficiente” produrre in paesi in cui il costo del lavoro è inferiore. In generale, delocalizzazioni produttive non sono necessariamente un danno per il paese “di uscita”, purché ovviamente questo sia in grado di attrarre altrettanti investimenti produttivi da altri paesi e di ricollocare la manodopera in eccesso. Di certo, siamo di fronte a un fenomeno figlio della “globalizzazione” dell’economia, che abbatte gli steccati tra ordinamenti giuridici e mette in competizione diretta i lavoratori di paesi diversi.
Che simili delocalizzazioni si verifichino anche nell’Unione Europea non deve stupire. Infatti, uno degli obiettivi principali della Ue è la creazione di un “mercato interno”, in cui “persone, merci, servizi e denaro circolino con la stessa libertà con cui si muovono all’interno di un singolo paese, senza essere ostacolati da confini o barriere nazionali.” A tal fine, le imprese, come i cittadini, godono della libertà di stabilimento, ossia del diritto all’ “esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, attraverso l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro” 1. Le società, quindi, possono trasferire fisicamente complessi produttivi da uno Stato membro a un altro, mantenendone la titolarità, oppure possono cedere complessi produttivi funzionanti2 ad altri soggetti o a imprese di altri Stati.
Una “delocalizzazione” da un paese a un altro, però, potrebbe determinare il licenziamento dei lavoratori. È vero che una direttiva comunitaria tutela l’interesse dei lavoratori a mantenere il posto di lavoro in caso di trasferimenti aziendali da un soggetto a un altro3, ma questa direttiva non disciplina espressamente cessioni in cui acquirente e venditore sono di Stati membri diversi e, soprattutto, i trasferimenti di complessi produttivi da uno Stato all’altro, i quali potrebbero far scattare il licenziamento dei lavoratori per motivi economici secondo il diritto del lavoro del paese d’origine4.
Che questa direttiva abbia un ambito d’applicazione così ristretto è una scelta politica perfettamente coerente con l’architettura “costituzionale” dell’Unione Europea e con la libertà di stabilimento, come disegnata dai Trattati e dall’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia5. Il problema, infatti, è precisamente questo: nell’Unione Europea, almeno per come è stata concepita sinora, il mercato coincide col territorio dell’intera Unione, mentre le relazioni industriali e i meccanismi di redistribuzione dei redditi e di protezione dei lavoratori sono governati quasi esclusivamente dagli Stati Membri. Per queste ragioni, il circuito politico-democratico si svolge entro le poleis degli Stati, mentre la politica e il diritto europei si occupano solo di mantenere l’ordine del mercato interno. Questo disallineamento crea inesorabilmente competizioni al ribasso tra Stati Membri6.
In astratto, l’obiettivo di realizzare un mercato unico in tutta la Ue è alto e nobile, ma quest’obiettivo impone di costruire un livello di “statualità” della stessa dimensione geografica del mercato e, soprattutto, necessita di un grado di solidarietà tra i cittadini europei analoga a quella esistente negli Stati nazionali: solo in tal caso un lavoratore friulano accetterebbe, ad esempio, di trasferirsi in Polonia o si potrebbero immaginare meccanismi di riequilibrio e di welfare uniformi all’interno della Ue. Nulla di tutto questo, o al limite solo embrioni di sviluppi futuri, è dato trovare nel diritto dell’Unione Europea. È questa la sfida che attende la politica negli anni a venire.
1 C-221/89 E. v Secretary of State for transport ex p. Factortame (“Factortame”) [1991] ECR I-3905, p.to 20. 2 Nel lessico del codice civile italiano: “aziende” (art. 2355 c.c.). 3 Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, attuata in Italia con l’art. 47 l. 428/1990 (introdotto con d.lgs. 2.2.2001). 4 Si vedano: Mc Mullen, Some Problems and Themes in the Application in member States of the Directive 2001/23/EC on Transfer of Undertakings, in International Journal of Comp. Lab. L. and Ind. Rel., 2007, 335 ss. e Lepore, Il trasferimento d’impresa tra legge e “case law”, Napoli, 2012, 159 ss. 5 C-438/05 “Viking” [2007] ECR I – 10779. 6 W. Streeck, Gekaufte Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2013, 144 ss.