Forza lavoro/Secondo il World Employment Social Outlook dell’ILO, il lavoro manca e quello che c’è perde qualità alimentando informalità e precarietà
Pochi lavori, più precari e peggio retribuiti: è questa l’immagine del mondo del lavoro che fornisce l’ultimo rapporto dell’ILO reso pubblico il 19 maggio. Le relazioni di lavoro cambiano delineando un allontanamento dalle “tradizionali” forme di lavoro salariato di fine secolo con lavoratori dipendenti che percepiscono un salario in cambio della prestazione della propria manodopera tendenzialmente a tempo pieno e per tutta la vita. Rispetto alla media mondiale del 50% di lavoro dipendente sul totale dell’occupazione nel 2014, EU e Paesi sviluppati si collocano al di sopra con circa l’80%, l’America Latina e il Nord Africa con il 60%. Al di sotto della media mondiale, il Sud est asiatico (35%), l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana con meno del 25% di lavoro dipendente sul totale degli occupati. Ma ciò che allarma è la visione dinamica degli stessi dati che evidenzia trend negativi per il lavoro dipendente, soprattutto per i paesi cosiddetti avanzati. In questi ultimi, l’incidenza del lavoro dipendente diminuisce a favore di nuove forme di lavoro di tipo autonomo al di fuori del tradizionale schema ‘datore di lavoro-lavoratore’. Restringendo poi lo sguardo al lavoro salariato, meno del 40% dei lavoratori dipendenti ha un contratto a tempo pieno e indeterminato, il restante 60% vanta contratti a tempo determinato o part-time e, fra questi ultimi, le donne hanno una larga rappresentanza. Oltre un quarto del lavoro part-time è inoltre di natura involontaria (29.2% nel 2013 in EU-28), ovvero rappresenta una “scelta forzata” in mancanza di opportunità lavorative a tempo pieno. I dati sulla natura del contratto di lavoro non sono meno confortanti soprattutto su scala mondiale. Nei paesi ricchi il contratto a tempo indeterminato riguarda i tre quarti degli occupati, ma meno del 20% dei lavoratori dei paesi a medio reddito e meno del 6% nei paesi a basso reddito. Per quanto il lavoro senza tutele contrattuali sia geograficamente influenzato da America latina ed Africa, anche i cosiddetti paesi avanzati registrano un declino del contratto a tempo indeterminato dall’84,6% all’83,4% corrispondente ad un incremento di coloro che lavorano senza alcun tipo di contratto soprattutto nell’ambito di una precaria autoimprenditorialità. La ristrutturazione del modello occupazionale standard verso maggiore precarietà in termini contrattuali e di orario di lavoro si ripercuote su una maggiore disuguale ripartizione dei redditi alimentando il circolo vizioso di bassa domanda aggregata, crescita modesta e scarsa occupazione soprattutto nel periodo post-crisi. Secondo il World Employment Social Outlook dell’ILO, il lavoro manca e quello che c’è perde qualità alimentando informalità e precarietà. Fra i motori del cambiamento occupazionale, un ruolo importante è svolto dalle cosiddette catene del valore, ovvero dall’integrazione internazionale dei mercati che ha portato i paesi a specializzarsi in diversi punti delle catene internazionali del valore. Il numero dei lavori relazionati con queste ultime all’interno di un processo di frammentazione internazionale della produzione è rapidamente aumentato negli ultimi decenni, sia in termini assoluti che come quota dell’occupazione totale. I cosiddetti lavori legati alle catene del valore rappresentano nel 2014 il 20.6% dell’occupazione totale, segnando un aumento di quattro punti percentuali rispetto al 1995. Una parziale battuta d’arresto si è registrata nel biennio 2007-2008 soprattutto nei paesi emergenti con la crisi del settore trasporti e macchinari, e la maggiore disponibilità di input domestici per alcuni paesi come la Cina. Nonostante ciò, un’importante quota di lavori legati alle catene del valore è concentrata nel settore dei servizi dei paesi avanzati che ha dimostrato una maggiore resilienza rispetto al manifatturiero duramente colpito dalla crisi del 2008. La letteratura economica ed empirica sulle relazioni offshoring/outsourcing e qualità del lavoro è ampia, e nel mare magnum delle stime di impatto, ciò che emerge con chiarezza è l’importanza del posizionamento del paese in termini settoriali all’interno delle catene del valore. Ovvero, dimmi cosa produci e ti dirò che occupazione hai. La specializzazione del paese in settori knowledge-intensive risulta strategica ed è relazionata a occupazioni qualificate e mediamente meglio retribuite. Al contrario, la specializzazione produttiva di molti paesi emergenti ed in via di sviluppo, ma anche di aree periferiche degli stessi paesi avanzati –si veda il Sud dell’Europa- verso le parti basse delle catene del valore è sovente relazionata a scarsa qualità dell’occupazione e maggiore vulnerabilità sui mercati internazionali. La mancanza di politiche industriali adeguate porta ad un pattern di specializzazione settoriale incentrato su una mera competizione di costo, essenzialmente del lavoro, che si ripercuote su minore occupazione, bassi salari e maggiore disuguaglianza. Da questo punto di vista la scelta di adeguate politiche industriali volte all’irrobustimento di una specializzazione settoriale ad alto valore aggiunto e tecnologicamente rilevante risulta fondamentale soprattutto in termini occupazionali. La partecipazione alle catene internazionali del valore è fondamentale in termini di creazione di posti di lavoro. In alcuni casi si associa ad una maggiore produttività del lavoro stesso in virtù dei cosiddetti technology spillovers che favoriscono l’interscambio di conoscenze e tecnologie fra paesi. Tuttavia, come ciò si ripercuota sul modo del lavoro non è affatto scontato. In particolare, gli ultimi dati diffusi dalla stessa ILO dimostrano una caduta della quota dei salari, cosiddetta labour share, a favore dei profitti. In definitiva ancora una volta, decidere i pattern del cambiamento occupazionale in Europa e nel mondo è una scelta in primis politica ed istituzionale che riguarda la selezione di politiche industriali adeguate, la gestione del rapporto capitale-lavoro in termini distributivi, e non ultimo, la pianificazione del lavoro. In tal senso, dovremmo forse passare dall’ottica del lavoro che manca a quella del lavoro meglio ripartito soprattutto in virtù delle tecnologie adottate che dovrebbero essere pensate a servizio dell’umanità piuttosto che a detrimento dei lavoratori.