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Il viaggio di Trump alla ricerca di terre rare

Il faccia a faccia tra Trump e Xi non risolverà il nodo delle forniture di terre rare di cui la Cina detiene il sostanziale monopolio. E neanche gli accordi in Australia e Giappone. Un supplemento di negoziati servirà poi all’Europa, dove auto e industria della difesa sono in allarme rosso.

Non è scoppiata nessuna pace sulle terre rare tra Stati Uniti e Cina, e probabilmente anche il faccia a faccia di giovedì 30 ottobre tra Donald Trump e Xi Jimping non porterà altro che una tregua, più o meno lunga. Di sicuro è questo il dossier che ha rappresentato il fulcro dei negoziati dello scorso fine settimana in Malesia in preparazione del vertice a due. Anche a Kuala Lumpur, comunque, i contorni di quello che dovrebbe essere l’accordo quadro sono rimasti sfumati soprattutto su questo punto. A quanto pare si è parlato semplicemente di un rinvio di un anno per l’applicazione del nuovo regolamento delle autorizzazioni cinesi all’export, la cui moratoria di agosto sarebbe scaduta il prossimo 10 novembre. Il sostanziale blocco a conta gocce imposto dal governo cinese con un cavilloso e invasivo regolamento di autorizzazioni all’export che avrebbe dovuto entrare in vigore l’8 novembre sarebbe stato sventato. Ma non è questa l’unica leva utilizzata dalla Cina per quanto riguarda le terre rare. 

I controlli al momento sono rimasti, rafforzati a partire dal 9 ottobre. Sono diventati particolarmente invasivi, e ciò ha già creato una strozzatura delle forniture che sta colpendo in modo diversificato i produttori di auto e di componentistica militare europei. Tanto che giovedì 30 ottobre, in contemporanea con l’incontro Trump-Xi, a Bruxelles sono stati convocati i negoziatori cinesi, a quanto risulta al Financial Times

Le terre rare sono in effetti l’asso nella manica delle ex casacche maoiste, l’arma commerciale per eccellenza in mano a Pechino nelle ormai tese relazioni con il mondo occidentale. Si tratta di elementi chimici per la verità non rari sulla crosta terrestre ma essenziali per tutta l’elettronica di precisione, le auto elettriche, le pale eoliche, le batterie e i magneti permanenti e, fattore sempre più determinante per i leader occidentali impegnati in un gigantesco riarmo, per l’industria della difesa. In tutti questi prodotti ne servono quantità ridotte (circa un chilogrammo per un’auto elettrica), ma come un tempo le spezie, il mercato – e l’industria – non ne può fare a meno. E storicamente la Cina ha avuto una notevole esperienza, anche a suo danno, nelle dinamiche di rarità e marginalità del mercato delle spezie, come si intravede dalle ricerche storiche di Amitav Ghosh. 

La Cina è il semi monopolista delle terre rare, perché con oltre il 60% dell’estrazione mondiale e oltre il 90 della raffinazione, ne determina i prezzi sul mercato e quindi i costi di produzione, notevolmente più bassi, visti gli standard ambientali utilizzati tanto nella Mongolia interna quanto nelle cave all’estero, ad esempio in Madagascar. Le restrizioni nei confronti dell’Europa sono scattate dopo che i Paesi Bassi hanno sottratto il controllo della produzione di chip di Nexperia al produttore cinese. E ora l’Unione europea è in allarme rosso. Per ottenere una licenza di esportazione – sono state le parole di un industriale convocato alla riunione d’emergenza convocata dal presidente francese Emmanuel Macron il 20 ottobre a Bruxelles e riportate da Le Monde – servono al fornitore cinese foto del prodotto per il quale si intendono utilizzare le terre rare, quali veicoli, in quale fabbrica saranno assemblati e in quali quantità saranno prodotti. In pratica, in questo modo la Cina ottiene una mappa completa delle produzioni della concorrenza e ciò crea problemi di eccessiva trasparenza soprattutto ai produttori di alte tecnologie militari e spaziali. In più l’attuale lungaggine autorizzativa crea una penuria di magneti permanenti. Nel vertice di Bruxelles il vice presidente esecutivo della Commissione Stephane Sejourné ha sostenuto che in mancanza di centri di acquisto comuni a livello europeo e di piani di stoccaggio, in tre settimane la catena di produzione potrebbe arrestarsi. L’allarme è così forte che la presidente Ursula von der Leyen ha evocato per la prima volta la possibilità di ritorsioni commerciali nei confronti della Cina, rafforzando in questo modo la tendenza protezionista della politica commerciale occidentale. L’incaricato della Commissione Sejourné ha quindi redatto un piano per creare una centrale d’acquisto unica, sul modello del Giappone, e per diminuire progressivamente la dipendenza, ora al 100% dell’Europa, dalle forniture cinesi entro il 2030 attraverso una diversificazione degli acquisti e l’aumento del riciclo. A quella data nei piano di Donald Trump potrebbero essere funzionanti i poli estrattivi australiani, grazie all’accordo siglato a Camberra il 20 ottobre tra Trump e il primo ministro Anthony Albanese sulla fornitura di materiali critici. E con il successivo accordo con la nuova premier giapponese siglato a Tokyo. L’Australia l’anno scorso con i suoi 64,5 milioni di dollari di investimenti si è lanciata a testa bassa nella corsa alla sostituzione delle forniture cinesi di terre rare, grafite e altri materiali considerati strategici. E Trump, dopo aver provato con Ucraina e Groenlandia, sembra aver trovato il partner strategico che cercava per rompere il monopolio cinese. Serviranno anni per il disaccoppiamento delle catene di valore ma nel frattempo, sull’onda delle intemerate trumpiane sui giacimenti non utilizzabili per ghiacci e guerra in Groenlandia e Ucraina, l’operatore statunitense MP Materials, ha aumentato vertiginosamente negli ultimi sei mesi. E ora è in grado di procedere ai necessari investimenti nelle mine australiane.