Non una ricetta ma una proposta, una rivendicazione che ha già una storia, da ripercorrere. Questo è nel libro “Tempo rubato” di Simone Fana la trattazione del tema della riduzione dell’orario di lavoro nella crescente automazione dei processi produttivi. Per un dibattito che riguarda disoccupazione, precarietà, reddito, produttività e plusvalore.
In un’epoca caratterizzata dagli elevati tassi di disoccupazione ci vuol coraggio per scrivere un libro che sostenga la riduzione dell’orario di lavoro. O meglio, un libro che mette al centro i tempi di vita e che riflette su come questi si coniugano (e potrebbero coniugarsi) con i tempi di lavoro. Una riflessione che ingloba gli aspetti tecnici e i riflessi politici di una questione tanto vitale quanto troppo spesso ignorata. Una discussione che riguarda tutti, nella nostra quotidianità di lavoratori o disoccupati. Una tematica a cui siamo esposti continuamente: quando denunciamo i meccanismi perversi dell’alternanza scuola lavoro, quando leggiamo di braccianti-schiavi nelle piantagioni della penisola, quando veniamo definiti “fannulloni”. Temi, dunque, che ci coinvolgono tutti, come individui e come società. Eppure sorprende l’abisso che separa l’importanza di tale argomento dall’attenzione (minima) che questo dibattito riscuote nell’agenda politica. In questo rompicapo si muove Tempo Rubato, di Simone Fana.
Nel muovere i primi passi in questa discussione dobbiamo tenere a mente i meccanismi e le possibilità materiali che, come società, abbiamo per promuovere una riduzione genuina dell’orario di lavoro. Adam Smith fu il primo grande economista a mettere in evidenza come l’aumento dell’efficienza e della produttività del lavoro siano alla base dell’aumento della “ricchezza delle nazioni”. L’aumento della produttività permette di produrre la stessa quantità di prodotto con una minore quantità di mano d’opera. Tale evoluzione ha permesso di porre le basi materiali per la riduzione dell’orario di lavoro e per l’aumento dei salari reali.
Ciò è quanto successo, seppur con oscillazioni significative, fino agli anni 70, e in particolar modo il breve periodo che va dal secondo dopoguerra alla crisi del petrolio del 1973. A partire da questo momento la relazione fra incremento del prodotto per occupato e aumenti salariali si inceppa. Se ci concentriamo sull’aumento dei salari osserviamo che in Italia dal 1990 al 2017 il prodotto per lavoratore è aumentato del 18%, mentre le retribuzioni reali medi sono aumentati meno del 3%. Una differenza enorme che non ha fatto che finire nelle tasche di chi non vive del proprio salario, ovvero i capitalisti. In altre parole, una proporzione minore di quanto prodotto dai lavoratori viene percepito, sotto forma di salari, dagli stessi.
In questo contesto assistiamo a una polarizzazione marcata dei tempi di lavoro. Da un lato, lavoratori a tempo completo il cui orario di lavoro spesso si allunga al di là delle 40 ore settimanali. Dall’altro, abbiamo l’esercito crescente dei part-time. La retorica dominante associa agli impieghi part-time la possibilità di disporre di una maggiore quantità di tempo libero. Tuttavia, questa interpretazione si scontra con la realtà di un tessuto lavorativo a bassi salari. Più del 60% dei lavoratori part-time italiani preferirebbero un impiego a tempo completo, ma non hanno altra alternativa (la media europea è del 25%).
A questo aspetto va aggiunto il dato sul totale delle ore lavorate in Italia che è ben al di sopra di quello dei paesi con il PIL pro capite più alto. Mentre in Germania si lavora, in media, 1356 ore all’anno, in Italia questa cifra è di 1723 ore. Una fotografia che mostra una situazione ben diversa da quella spesso descritto dalla retorica dominante, che descrive i lavoratori del su Europa come scansafatiche.
In sostanza, il quadro in cui ci muoviamo è tutt’altro che roseo. Viviamo in un tempo in cui l’evoluzione del sistema produttivo (tanto a livello globale, quanto in Italia) permetterebbe il miglioramento materiale delle condizioni lavoro e di vita. Eppure non è ciò avviene. Anche lì dove hanno avuto luogo, i miglioramenti sono stati circoscritti e ben al di sotto delle potenzialità dettate dall’evoluzione delle forze produttive.
Una volta stabilito che esisterebbe il margine per ridurre l’orario di lavoro, è necessario indagare su quali sono gli aspetti politici e culturali che si frappongono alla effettiva realizzazione. Come è possibile che, nonostante esistano le condizioni per una riduzione generalizzata della giornata di lavoro, una tematica così attuale sia sostanzialmente assente dall’agenda politica?
La domanda è complessa, sfaccettata ed esula il puro economicismo. Per rispondervi è necessario all’allargare il campo d’analisi per mettere a fuoco. Questa è l‘operazione che viene realizzata in Tempo rubato. Il libro non prende scorciatoie che portano a conclusioni semplicistiche. Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è una proposta tanto immediata nella sua formulazione quanto estremamente complessa nella sua realizzazione. Come indicato nel capitolo conclusivo, “la riduzione dell’orario di lavoro non è una conseguenza naturale del progresso tecnologico … Non è mai stato così, non lo sarà in futuro. La riduzione dell’orario di lavoro è una rivendicazione politica, una battaglia di parte, da conquistare organizzando una parte contro l’altra”.
Il libro ha il merito di considerare la complessità delle relazioni sociali e dei processi produttivi. Le proposte di riduzione dell’orario di lavoro e le esperienze registrate in altri Paesi vengono inserite nel contesto storico e politico in cui queste hanno luogo. La narrazione non si lascia andare a facili entusiasmi. Un esempio su tutti è rappresentato dell’accordo dei lavoratori metalmeccanici tedeschi che recentemente ha portato alla riduzione dell’orario di lavoro a 28 ore settimanali. Un’utile spunto ed un possibile esempio da seguire, ma che rimarrebbe tronco se non venisse accompagnato dallo studio del ruolo del capitale tedesco negli ultimi anni. È qui che emergono le (apparenti) contraddizioni dello sviluppo capitalistico dei Paesi centrali e gli inevitabili rapporti con l’economia globale.
L’ampio respiro dell’opera è chiaro fin dalle prime pagine in cui si respira la tensione fra idee tradizionali dell’approccio marxiano e la loro validità come categorie per l’analisi del presente. È qui che ritroviamo concetti come “plusvalore assoluto” (la capacità di estrarre una quota maggiore di valore attraverso il prolungamento della giornata lavorativa) e “plusvalore relativo” (l’aumento della quota di valore prodotto che è appropriata dal capitalista grazie all’aumento della produttività) nella loro estrema attualità, elementi fondamentali per comprendere il processo di produzione capitalista e il mercato del lavoro. Vocaboli che probabilmente creano poca empatia fra il grande pubblico. Si tratta di concetti che si materializzano quotidianamente sotto forma di straordinari non retribuiti o nella crescente automazione dei processi produttivi. Aspetti che mettono in evidenza quanto sia rilevante il pensiero di Marx.
In ogni caso, non mancano le proposte concrete che potrebbero essere introdotte. Il libro ripercorre le misure che sono state sviluppate nel corso degli anni. È il caso dell’”Ipotesi Valli”, datata 1984, la quale prevedeva di modulare la lunghezza della giornata lavorativa secondo l’età anagrafica del lavoratore. Un meccanismo che, per come formulato, faciliterebbe l’ingresso e l’uscita dal mercato del lavoro e permetterebbe di estendere la platea degli occupabili. Lo Stato assume, come è inevitabile che sia, un ruolo di primo ordine. Se da un lato vengono dettagliati diversi possibili campi di intervento per il settore pubblico, dall’altro si mette in guardia sui requisiti necessari per attuare tali politiche. Requisiti che coinvolgono una concezione di Stato che ad oggi sembra in buona parte assente.
Chi è in cerca di una bacchetta magica rimarrà deluso da questo saggio. Non abbiamo di fronte un libro di ricette, piuttosto un fertilizzante, una bussola che orienta e invita al dibattito. Il valore dell’opera sta anche nella capacità di orientare la discussione mettendo in campo gli ingredienti necessari per un’analisi completa nella quale, contemporaneamente, possiamo identificarci. Una sfida, sicuramente, in questi tempi caratterizzati dalla sete di risposte facili ed immediate. In ogni caso, una rivoluzione possibile e di cui abbiamo profondamente bisogno.