Per ricordare Francesco Ciafaloni, scomparso qualche giorno fa, ripubblichiamo un suo articolo su “Politica ed economia” del dicembre 1994 sul sindacato e la rappresentanza del lavoro, e un ricordo di Guglielmo Ragozzino.
Son passati trent’anni dal tempo di questo scritto di Francesco Ciafaloni: “Il sindacato come organizzazione di sindacalisti”. Da allora le cose sono molto cambiate; ciascuno di noi sa quanto e come, in bene e in meno bene. A parte gli scherzi. Francesco lavorava allora per il sindacato, a Torino, e si occupava anche di migranti; il rischio che correva era di perdere il lavoro, i contatti, le amicizie e anche di rendersi conto di avere già perso tutto, di non contare più niente, di doversi reinventare un compito e una nuova attività, ma senza quella sorta di copertura che il sindacato – il mondo del lavoro – gli dava, forse. Lo fece senza sgomento: per lui era più importante dire la verità, la sua verità. Sapeva le cose, sapeva leggere, sapeva spiegarsi. In origine la sua era una famiglia di campagna che lo aveva aiutato a diventare ingegnere. Da giovane ingegnere era andato in America, a imparare la lingua, i modi, l’industria del petrolio. Se gli chiedevi, potevi accorgerti che sapeva tutto, e del petrolio e dell’Eni e del resto. Difficile sopportarlo, per i petrolieri, con tutti i suoi se e i suoi ma. Sapendo scrivere e leggere è venuto a Torino per lavorare da Bollati Boringhieri e poi da Einaudi. Trovò amici, come Luca Baranelli che scrisse con lui “Una stanza all’Einaudi”, ma poi, per ristrutturazioni editoriali e convenienze varie, perse il lavoro. Poi fece un po’ il sindacalista. Non era persona da chiedere qualcosa. Sapeva solo offrire.
Per imparare ancora, per non perdere i contatti, per continuare a fare, a scrivere dell’altro, si infilava in qualche sede sindacale, un po’ di straforo, per leggere tutto – notiziari, agenzie, riviste – tenersi informato, essere in grado di rispondere a chi gli chiedesse qualcosa: vuoi del petrolio e dell’energia, vuoi del sindacato, o dei libri, oppure di tutto il resto. Non si vantava di saper spiegare le cose, lo faceva e basta. Parlava con interesse e curiosità, senza mai mettersi in mostra, anzi dandoti l’impressione di essere tu a sapere le cose e lui ad ascoltare e imparare.
Aveva bisogno di essere al corrente, di capire, di apprendere. Con Carlo Donolo, il grande sociologo che non c’è più, ci eravamo spartiti il mondo in tre parti: il Governo lo controllava Carlo, il Lavoro era compito di Francesco, Il Potere industriale era affare mio. Carlo se ne è andato da otto anni ormai e naturalmente i governi, uno dopo l’altro, ne hanno approfittato. Anche il Potere industriale, del tutto indifferente, non ha fatto una piega; rimaneva il Lavoro. Esso è sempre stentato e mal pagato; ci sarebbe molto da fare, da dire, da organizzare, ma Francesco è diventato stanco, molto stanco: stava male. Ha chiesto aiuto, ma non abbiamo saputo darglielo; non c’è stato verso. Lui voleva solo dei libri, una sala di lettura e una platea, anche piccola, minima, capace di ascoltarlo, di discutere, di ringraziarlo, alla fine. (Guglielmo Ragozzino)
Il sindacato come organizzazione di sindacalisti
di Francesco Ciafaloni
Si capiscono meglio i sindacati se li si pensa come associazioni di funzionari che forniscono o vendono protezione ai loro iscritti,o in generale a quelli che ricorrono alla loro mediazione,in un sistema in cui le leggi valgono poco,i diritti non sono mai realmente tali, ma una sorta di opzione, che ha bisogno di un intervento attivo dell’interessato per diventare attuale.
Un po’ più di venti anni fa Alessandro Pizzorno usava raccontare che un suo collega, forse americano, gli aveva chiesto come mai in Italia ci fossero tanti sindacalisti. Lui aveva risposto che in nessun altro Paese ne avrebbero trovati tanti disposti a fare così tanto per così poco. Credo che la risposta fosse vera e che valesse un po’ per tutti gli italiani, non solo per gli attivisti sindacali e politici. Anche i manovali e i diplomati italiani sulle cui spalle si è retto il miracolo economico erano disposti a fare quasi tutto per quasi nulla. Tutti noi siamo stati disposti a fare molto per quasi nulla.
Oggi questo non è più vero. Il lavoro non è più a basso prezzo in Italia e se c’è, come c’è, della gente disposta a fare molto per poco o nulla, la si trova soprattutto nei gruppi di volontari che si occupano di emarginati e solo raramente nel movimento dei lavoratori. I sindacati sono diventati organizzazioni con costi interni inarrestabilmente crescenti, burocrazie che sembrano inventate apposta per illustrare l’una dopo l’altra tutte le leggi di Parkinson, a partire dalle fondamentali: che una burocrazia non fa mai con mezzi minori ciò che potrebbe fare con mezzi maggiori e che il tasso di aumento di una burocrazia è costante.
I sindacalisti in Italia sono ancora di più che negli altri Paesi ma non perché siano disposti a fare così tanto per così poco ma semplicemente perché sono lì, vengono retribuiti, e non hanno prospettive di lavoro migliori. Malgrado il permanere di una zona di motivazione generale, i sindacati sono diventati una sorta di para-Stato.
Per questo motivo discutere di democrazia sindacale senza tener conto dell’esistenza del ceto dei sindacalisti è senza senso. Faccio parte di quelli che si sono ostinati a discutere di movimento operaio come se i sindacati fossero organizzazioni di lavoratori rappresentati dai delegati e dai sindacalisti. E questo può essere stato vero alla fine degli anni Sessanta, quando c’è stato un vero movimento operaio, ma è diventato sempre meno vero, dal ’72 in poi, negli anni della consociazione, e difficilmente tornerà a essere vero mentre il numero dei lavoratori dipendenti nell’industria declina sempre più e crescono gli impiegati, privati e pubblici.
È stato un po’ più vicino al vero Bruno Manghi, in Democrazia minima o Passaggi senza riti, perché ha sempre guardato da vicino, con umanità, i comportamenti dei sindacalisti, che non sono santi ma neppure i peggiori degli uomini.
ORGANIZZAZIONE E MOVIMENTO
In un momento di emergenza come questo, in cui viene messa in dubbio la dignità stessa dei cittadini e una parte dei lavoratori e dei vecchi rischia di perdere l’essenziale, non l’aumento nel mese giusto e nella quantità giusta, e perciò la difesa delle organizzazioni diventa una necessità primaria, si può essere tentati di accantonare i problemi interni e le regole per affrontare ancora una volta, se si può, tutti insieme, il pericolo di perdere il modesto benessere che pure molti di noi hanno contribuito a produrre.
Non è più ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese che, tra le altre cose, aveva concordato una riduzione drastica, della metà, del numero dei sindacalisti distaccati, gratuitamente, dal Pubblico impiego, non per distruggere i sindacati ma per potarli, per ricondurli alla loro funzione generale e fondamentale, per obbligare i sindacalisti a rispondere di quel che fanno ai loro rappresentati.
Oggi il sindacato viene trattato come un cane morto e non è il caso, si potrebbe sostenere, di fornire argomenti a quelli che vorrebbero seppellirlo.
Oggi gli uomini e le donne che lavorano si riscoprono movimento e, almeno per una volta, riempiono le piazze, ventolano le bandiere, si commuovono alle note di inni gloriosi, riscoprono, come l’ho riscoperto anch’io, proprio perché non conoscono le facce dei loro vicini, di non essere i soli a non tollerare il disprezzo e la prepotenza, la commistione tra pubblico e privato, il potenziale totalitarismo di chi ci governa.
Se però si vuole trovare il modo, nell’immediato e per il futuro prossimo, di risolvere almeno una parte dei problemi di quelli che sono scesi in piazza o che hanno scioperato, se si vuole impedire che la cordata che ha prevalso del partito degli affari trasformi la borghesia nel comitato di affari del governo, bisogna che anche i problemi interni delle confederazioni e dei sindacati autonomi vengano messi in piazza. Non bisogna far finta che i sindacalisti non ci siano, che non corrano il rischio di perdere la pensione, che possano tornare tutti a un posto di lavoro che per molti non esiste più o non è mai esistito. Non bisogna far finta che non ci siano nel sindacato zone di commistione di interessi, di carriera, di abuso o di interpretazione disinvolta delle norme.
Anche il trovare i soldi non è un problema su cui scherzare. Non bisogna sorridere dell’ipotesi che dietro la decisa volontà espressa, almeno a parole, su tutte le piazze, di realizzare l’unità sindacale, ci sia anche una crescente difficoltà a pagare gli affitti delle sedi. Solo che i soldi bisogna raccoglierli o guadagnarseli bene. I tempi non sono belli. Ciò che non verrà fatto in fretta diventerà punto di debolezza e causa di sconfitta. Nulla verrà perdonato. Questo governo non sembra aver deciso se i sindacati cercherà di comprarli o di spintonarli fuori o di fare l’una e l’altra cosa: non bisogna farsi trovare né fuori equilibrio né con persone o carriere in vendita. C’è fretta.
L’UNIFICAZIONE
È sembrato a lungo che, malgrado fossero venuti meno da anni i motivi ideali della scissione, la pluralità delle confederazioni (nella forma che si è realizzata e che non corrisponde a un vero e proprio pluralismo sindacale, fondato su un modo diverso di rappresentare gli stessi interessi o interessi diversi all’interno della stessa categoria) fosse ineliminabile. Sembrava insuperabile la divisione delle componenti partitiche all’interno della stessa confederazione e del vincolo con diversi e opposti partiti tra le varie confederazioni, per non parlare del diverso peso delle varie categorie, in particolare dei dipendenti pubblici e di quelli privati tra le varie confederazioni.
Il crollo del sistema dei partiti ha trasformato radicalmente la situazione. Restano forti quanto prima le incompatibilità tra gruppi e cordate, tra carriere e aspettative, che anzi si accrescono. Resta vero che, se ci fosse la fusione, la rinata Confederazione generale del lavoro avrebbe almeno il triplo dei generali e dei colonnelli necessari e resta quindi vero che c’è un interesse privato di tutti gli ufficiali a moltiplicare gli enti senza necessità. Ma qualcosa è cambiato. Questi problemi di intendenza non si possono più lasciare da risolvere al passare del tempo. Se hanno il senso della propria responsabilità le confederazioni devono fare i congressi su questi problemi e risolverli almeno nelle grandi linee.
In particolare
1] il lavoro e la pensione dei sindacalisti;
2] la demarcazione tra attività sindacali e commerciali o assicurative. Le attività di patronato sono una cosa; quelle assicurative, un’altra. Le confederazioni possono benissimo svolgere attività assicurative, ma la separazione degli enti e delle carriere deve essere totale.
Chiediamo che valga per Berlusconi; deve valere anche per noi.
Le differenze di interessi tra i lavoratori, che ci sono, devono poter essere mediate in modo trasparente, senza travestirle da differenze nei princìpi o da conflitto insanabile tra tesi di confederazione.
Se i lavoratori della funzione pubblica o dei trasporti o delle poste dovranno rinunciare a qualcuno dei privilegi che hanno nel campo dell’età di pensione o del rendimento o dei fondi integrativi, sarà bene che si sappia a cosa rinunciano e perché, e che ne abbiano il merito, o che cosa difendono e perché, anziché trasformare tutto in una mediazione tra Cisl, Uil e Cgil.
L’ABISSO DELLE DISUGUAGLIANZE TRA LE CATEGORIE
I sindacati, quelli confederali e quelli autonomi, svolgono funzioni che non possono né devono sparire. La funzione fondamentale è quella della difesa dei diritti elementari dei lavoratori più deboli, troppo numerosi per potersi costituire in gruppo, se non in questa forma, fondata sulla attività e il sacrificio di più generazioni.
È altrettanto importante però la funzione di mediazione tra le rivendicazioni, spesso diverse, talora opposte, dei vari settori.
La differenza di interessi tra lavoratori nella discussione sindacale è quasi un tabù. Non se ne parla. E, in certo senso, tabù deve restare. Bisogna cioè mantenere saldo e inviolabile il principio che, in ogni caso, vanno evitati conflitti fondati sulla pressione diretta nel mercato, in certo senso sulla forza, sia pure quella dello sciopero, contro altri lavoratori.
Tra il non ricorrere allo sciopero contro le maestre di asili o contro i ferrovieri da parte degli utenti o dei genitori degli allievi e il non parlare delle differenze di trattamento retributivo, di condizioni di lavoro e pensionistiche e quindi delle differenze di interesse tra vari gruppi di lavoratori, c’è una bella differenza.
Quando tutto si muove e tutto è in crescita si può sempre cercare di spostare tutti in avanti, usando i privilegi di un gruppo come pretesto delle rivendicazioni di un altro gruppo. Ma quando la coperta si stringe e non si può non accettare il criterio della compatibilità, se non si vuol correre il rischio di sfasciarlo davvero, lo Stato sociale; non si può non fare come hanno fatto dappertutto in Europa e cercare, rispettando il più possibile l’esistente, di imporre a tutti un qualche criterio condiviso di giustizia.
È importante che la discussione, il controllo di compatibilità, tra le rivendicazioni dei lavoratori avvenga in forma pubblica, esplicita, interna al dibattito politico delle confederazioni. Che gli interessi vengano rappresentati e mediati. Quelli risultati incompatibili troveranno altre vie di espressione all’interno del pluralismo sindacale previsto dalla Costituzione della Repubblica.
Le differenze di trattamento e di condizioni sono enormi. I lavoratori dell’industria privata, che certo contano troppo poco, hanno garanzie imperfette, soprattutto nelle piccole aziende, e poco più che un potere di sguardo, che ha conseguenze, quando le ha, solo se allo sguardo segue una mobilitazione.
Nel pubblico impiego invece certo i sindacati contano troppo e sono corresponsabili, se non addirittura i principali responsabili, della lottizzazione e dell’inefficienza.
Il quadro naturalmente non è omogeneo. Non tutte le confederazioni hanno avuto lo stesso peso nei vari settori. Ma, a questo punto, le differenze sono più regionali che generali. In pratica nel pubblico impiego ha prevalso il cuius regio eius religio: gli impiegati si sono iscritti in prevalenza ai sindacati legati ai partiti di governo, e perciò sono iscritti soprattutto alla Cisl e alla Uil al Sud e soprattutto alla Cgil nelle Regioni rosse. Non ne discende che tutti siano uguali perché le Regioni rosse erano (e sono) amministrate molto meglio delle altre. Ma la corresponsabilità resta. In qualche caso può trattarsi di corresponsabilità in una gestione efficiente.
Basta partecipare a qualche discussione in Emilia o in Veneto per rendersi conto che lì i pubblici amministratori sono fatti di una pasta diversa; che si possono incontrare funzionari che realmente si impegnano a fondo, che possono sbagliare, come tutti, ma che ci provano.
Non si tratta di rossi buoni e bianchi cattivi (o viceversa) ma di condizioni e storie locali, note e in parte anche spiegate.
Anche i settori contano. Pensare che alle poste i sindacati, cioè soprattutto la Cisl, che controllano anche le assunzioni attraverso il controllo dei trimestralisti (assunti a termine) siano vittime della partitocrazia e non i principali responsabili della lottizzazione e dell’inefficienza, vuol dire essere proprio ciechi. Ed anche nei ministeri, nella scuola, nel sistema sanitario, i sindacati, confederali e autonomi sono tra i massimi colpevoli delle disfunzioni e della trasformazione di ogni sistema di incentivi (del resto in campo scolastico e ben difficili da configurare) in aumento generalizzato, suddiviso a pioggia.
Questa degenerazione, questa trasformazione dei sindacati del pubblico impiego in controllori dei favori elargiti dai politici importanti, non è avvenuta contro la volontà dei lavoratori. La maggior parte di quelli attivi, di buona volontà, non ha gradito la trasformazione; non l’ha accettata. Ma non ha trovato nulla da contrapporre.
La degenerazione è avvenuta conservando le parole, la finzione del decentramento, dell’autonomia, della responsabilità. All’inizio del processo, alla fine degli anni ’60, c’era davvero molto da scrostare. C’era il monopolio dei partiti di governo, gerarchie oppressive, basse retribuzioni e umiliazioni. E del resto allora le lepri erano i lavoratori del settore privato, che cercavano per la prima volta un reddito decente, garanzie, sicurezza e dignità.
Come in molti altri settori, dalla scuola alla spesa nel Mezzogiorno, il punto di svolta si è verificato nella seconda metà degli anni ’70, con la consociazione e la lottizzazione, che ora torna a sembrare quasi positiva rispetto alla sopraffazione totale che torna a prevalere, ma che aveva veramente vizi intollerabili.
Rapidamente i sindacalisti, anche dei partiti di opposizione, almeno nelle regioni centrali e settentrionali, sono diventati come termiti che a furia di piccoli morsi trasformavano i grandi tronchi, i virtuosi criteri, delle piattaforme confederali, le affermazioni di diritti, di dignità, di mestiere, nella polvere, nella segatura dei distacchi di comodo, dei favori, del diritto a lavorare poco o nulla, se non per scelta personale.
Perciò sarebbe sbagliato pensare che ci sia una massa di lavoratori che si agitano per essere rappresentati. In effetti pochi o nessuno vuole essere rappresentato. C’è una minoranza di lavoratori che vorrebbe decidere direttamente o quasi le politiche rivendicative e la politica in senso lato dei sindacati e una maggioranza che semplicemente vuole protezione contro le insicurezze degli arbitrii del potere, delle incertezze del mercato, dei cambiamenti delle organizzazioni. Questa protezione è poi, in realtà, solo parzialmente efficiente per i lavoratori dell’industria privata e dei servizi privati e ultra-efficiente, fino a trasformare la sicurezza degli impiegati da mezzo in fine dello Stato, nel pubblico impiego.
Non credo che si possa affrontare questa situazione con il libero conflitto delle organizzazioni contrapposte dei medici, dei dirigenti, degli infermieri, delle più varie professioni presenti nel pubblico impiego che, un po’ alla volta, stanno tutte costituendo un ordine, con barriere all’ingresso, e difese di privilegi retributivi e crescenti rigidità e di quelle generali. Non ci sarà una provvidenziale crescita della trasparenza della rappresentanza, resa finalmente democratica, e quindi (?) una automatica mediazione degli interessi. Ma non si può neppure continuare con la mascheratura del conflitto attraverso il linguaggio della coincidenza degli interessi.
Bisogna che le differenze possano essere espresse, e perciò mediate, senza illudersi che scompaia il ceto dei sindacalisti, ma elaborando regole, sia nel senso di comportamenti politici che di leggi, che costringano i sindacalisti a rispettare di più gli interessi dei loro rappresentati e quelli generali. I pubblici impiegati non possono essere il fine del Welfare State; i sindacalisti non possono essere il fine delle organizzazioni sindacali e non possono fare tutto. Bisogna imparare a favorire le attività utili ai rappresentati e alla collettività e quelle che sono pura difesa di ceto o abuso puro e semplice. Nell’affrontare un governo come questo, e nella situazione attuale dei conti pubblici, la forza che deriva dall’allargare al massimo le rivendicazioni è illusoria.
UNA ASSOCIAZIONE DI FUNZIONARI
In questo momento i grandi sindacati confederali sono associazioni di funzionari, pagati dallo Stato, dai contributi dei lavoratori, dai pensionati, dai proventi di attività di patronato e assicurative che garantiscono protezione economica e normativa ai lavoratori del pubblico impiego, dei grandi enti di Stato in via di privatizzazione, delle grandi e medie aziende private. Molti di loro lavorano con impegno, alcuni, come in tutte le grandi organizzazioni, non si sa bene cosa facciano e sembrano faticare molto a tenere insieme la loro vita, per non dire il loro lavoro, altri, non necessariamente i più giovani, sembrano ancora animati dalla passione politica di tanti anni fa.
Credo che la situazione dei numerosissimi sindacati autonomi del pubblico impiego (per esempio della sanità) o dei Cobas, sia abbastanza diversa. In questi casi credo si possa parlare di una rappresentanza di interessi diretta, di un ceto di curatori di affari, con un rapporto col (ristretto) numero dei rappresentati non diverso da quello di un commercialista, nel caso dei sindacatini particolaristici, o di una rappresentanza ideologico-economica nel caso dei Cobas, forti soprattutto nella scuola. Credo che manchi però la garanzia della protezione che deriva dal potenziale monopolio, dalla maggior rappresentatività, dal rapporto privilegiato con i partiti di governo.
Nessuna delle tre confederazioni, infatti, si è trovata all’opposizione negli ultimi quindici-venti anni. E venti anni sono molti, sono una generazione. Nel mondo dei funzionari il controllo di realtà, che in una fabbrica arriva attraverso la produzione e il mercato, e in politica attraverso il controllo elettorale, non arriva mai.
L’esistenza economica dell’organizzazione è garantita dai distacchi, dai redditi delle attività collaterali, dalle iscrizioni dei pensionati, dall’automatismo del rinnovo delle deleghe, che è altrettanto automatico e inconsapevole quanto il pagamento delle imposte da parte delle aziende per conto dei lavoratori.
Neppure i partiti politici, alcuni dei quali erano famosi per le tessere false, le iscrizioni comprate e quelle di comodo, avevano un rapporto così distante con i propri iscritti. Nel sindacato, a parte gli eventuali delegati attivi che si danno da fare per reclutare iscritti nuovi o per stabilizzare quelli vecchi, nessuno deve tener conto della volontà degli iscritti, mai. E i delegati spesso hanno un rapporto assai precario con i funzionari esterni e con le sedi direttive. Hanno imparato negli anni le capacità di manovra e le competenze, le uniformità linguistiche che gli consentono di sopravvivere come notabili e possono essere del tutto separati dalle discussioni e dalle svolte del sindacato, in particolare delle confederazioni.
LA VENDITA DI PROTEZIONE
Si comincia a capire meglio che cosa i sindacati siano se li si pensa come associazioni di funzionari che forniscono o vendono protezione ai loro iscritti, o in generale a quelli che ricorrono alla loro mediazione, in un sistema in cui le leggi contano poco, i diritti non sono mai realmente tali ma sono una sorta di opzione, che ha bisogno di un intervento attivo dell’interessato per diventare attuale e non potenziale.
È difficile dire se questa situazione si sia creata per la degenerazione del sistema politico italiano e per la lottizzazione universale; oppure per la compresenza di un’ideologia rivoluzionaria, di rovesciamento dello Stato, e quindi di sfiducia verso lo Stato di diritto (“lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”) con la pratica del consociativismo. Oppure se si tratti puramente e semplicemente del Mediterraneo, del rifiuto della norma e della ricerca dell’intermediazione. Ci sarà un po’ di tutto magari. Certo negli anni della consociazione la necessità di avere intermediari, di essere contati in una qualche casella della lottizzazione universale è stata fortissima, soprattutto nel pubblico impiego, di cui i sindacati confederali e non, sono stati cogestori, in qualche caso, come l’Inps, anche formalmente.
Ora però molti elementi che rendevano difficile regolare il sistema dei rapporti di lavoro, pubblici e privati, in maniera trasparente sono venuti meno. È venuta meno la consociazione. È venuta meno la miseria che rendeva impossibile avere pazienza e aspettare i tempi del consenso e della legge. È venuta meno la convinzione che si potesse servire un qualche fine generale mettendo “i nostri” nella macchina dello Stato, perché è risultato chiaro a tutti che una buona amministrazione si può fare con buoni programmi e con impiegati efficienti ma che la ripartizione degli impiegati tra i partiti rende solo più facile la corruzione.
C’è una possibilità reale di rendere i rapporti più trasparenti e fisiologici. Non bisogna però illudersi di trasformare il sindacato, tutto il sindacato, in una grande rappresentanza. Si può migliorare la rappresentanza se la si rende diretta e trasparente e se si scaricano i funzionari eletti dai compiti che non gli sono propri. Bisogna regolare tutte le attività collaterali della protezione. Bisogna distinguere tra pubblico impiego, in cui qualunque conflitto di lavoro o comportamento sul lavoro ha effetti immediati su esseri umani, su cittadini, e il lavoro nell’industria in cui l’effetto immediato è solo su grandezze economiche.
LE REGOLE GENERALI
Attività non sindacali • Andrebbero abolite tutte le partecipazioni a consigli di amministrazione e le attività economiche non direttamente finalizzate alla protezione dei lavoratori. Tra le attività collaterali di protezione di tipo assicurativo, o di patronato, bisognerebbe tener conto delle condizioni reali del sindacato italiano. Mentre altrove, in Francia per esempio, le associazioni di mutuo soccorso hanno una continuità secolare, in Italia le mutue sono state prima cancellate dal centralismo fascista e poi dal centralismo dell’Inps e del Sistema sanitario nazionale. Un’eventuale attività assicurativa, di tipo medico o pensionistico, dei sindacati, parte praticamente da zero, entra in un mercato dominato da grandi e grandissimi enti e, se deve essere costruita, deve essere costruita con chiarezza.
Se i lavoratori preferiscono gestire i propri soldi attraverso fiduciari propri e non attraverso le grandi aziende dei due settori, usando le possibilità che sono state aperte dalla riforma sanitaria e che possono essere aperte dal crescere dei fondi pensionistici integrativi, è bene che lo facciano scegliendo professionisti del settore e non sindacalisti disoccupati. Al momento si sente parlare di accordi con grandi compagnie di assicurazione in cui non si capisce quale sia l’apporto del sindacato, se non l’apporto dei nomi dei propri iscritti.
Le mutue o i fondi gestiti dai sindacati, se ve ne saranno, dovranno garantire una piena competenza di gestione e caratteristiche di solidarietà maggiori di quelle che si trovano in un qualsiasi fondo pensione e che derivano dalla ripartizione del rischio. Naturalmente una mutua molto vecchia e solida o un solido fondo pensione avrà capitali accumulati per far fronte anche a periodi di crisi con criteri diversi da quelli del massimo utile immediato. Un fondo o una mutua di nuova creazione dovrà costruirsela la solidità e questo deve essere chiaro ai soci.
I servizi di tipo fiscale (compilazione delle dichiarazioni dei redditi) sono stati specificamente regolati dalla legge sui Caaf (Centri autorizzati di assistenza fiscale). È interesse dei lavoratori che i privilegi che lo Stato ha garantito ai Caaf (per esempio l’esclusiva del rimborso in tempi rapidi del credito d’imposta) che possono trasformarsi in una costrizione all’uso del Centro per ottenere ciò che dovrebbe essere diritto di tutti, siano ridotti al minimo dall’aumento della rapidità di tutti i rimborsi e dalla facilità di creazione di nuovi centri. Il sindacato dovrebbe chiedere la riduzione di questi privilegi anche se rendono minore il proprio vantaggio “aziendale”. O almeno, i lavoratori dovrebbero essere consapevoli del regalo che lo Stato fa ai venditori di protezione. I cittadini dovrebbero sorvegliare che il regalo sia giustificato e che la protezione sia reale.
Le attività di patronato sono più vicine alla tradizione sindacale e andrebbero proseguite. Sarebbe però necessario chiarire alcuni punti.
Non è corretto che i sindacati contemporaneamente gestiscano l’Inps in modo che ci sia bisogno di un patronato per accedervi e ricevano i contributi pubblici all’attività di patronato. Però, stando le cose come stanno, è chiaro che la funzionalità dell’Inps è, e resterà, legata ancora per molto alla funzione di schermo che i patronati esercitano, raccogliendo documenti, controllando corrispondenze, indirizzando le persone. Abbiamo chiesto a un certo numero di persone in coda perché si rivolgessero all’Inca. La maggioranza ci ha risposto che lo facevano perché l’Inca è semplice. C’è un solo sportello con una persona che, con maggiore o minore efficienza e cortesia, alla fine si occuperà del tuo caso, invece degli interminabili corridoi e delle frecce non sempre chiare dell’Inps.
Quindi nel caso dell’Inca bisognerebbe solo sorvegliare che veramente si rispettino gli interessi del consumatore.
Attività sindacali • Bisogna soprattutto ridurre il numero dei gradi di elezione e, come nel caso della pubblica amministrazione, decentrare il sistema.
Non si tratta solo di garantire una corretta elezione democratica in senso politico dei rappresentanti. L’elezione, periodica e generale, ci deve essere perché altrimenti si rimanda il controllo di realtà alle rivolte, e non è un buon metodo, ma non basta.
Bisogna che la protezione sia fornita in maniera ravvicinata e controllabile. Il controllo del lavoratore avviene sempre dopo l’accordo, quando si vedono le conseguenze pratiche. Però il decentramento e l’elezione possono contribuire a rendere i funzionari meno fumosi. Oggi il funzionario ha la possibilità, forse la necessità, di richiedere un mandato totale. Può non spiegare nulla dei vincoli e dei risultati reali· di una trattativa, che lui stesso non riesce a seguire davvero e che il lavoratore non può capire nei dettagli pratici e nelle alternative neppure se volesse.
Se si moltiplicano i poteri locali, se i problemi vengono trattati uno per uno, il funzionario e il lavoratore possono cominciare a capirci qualcosa e ad avere un maggiore, reciproco, rispetto, senza mitizzazioni e senza insulti, mentre oggi non mancano né le une né gli altri. È naturale che sui temi generalmente più politici o riguardanti gli interessi di tutti i cittadini a trattare con gli enti locali o il governo vada la confederazione, perché è giusto che non siano i sindacati del pubblico impiego a determinare il funzionamento dell’amministrazione. Ma deve essere chiaro che i dipendenti pubblici hanno diritto a difendere i propri interessi come lavoratori, che i lavoratori delle altre categorie devono essere proprio consultati e che i cittadini sono rappresentati come tali dal Parlamento e non dai sindacati.