Lo scorso 13 giugno è venuto a mancare Franco Calamida, lucido e appassionato protagonista e interprete di molte stagioni di lotta sociale, sindacale e politica, a partire dal 1968-69 e dall’esperienza dei Comitati Unitari di Base e dei Consigli di Fabbrica. Dal blog di Michele Nardelli.
Erano passati ormai una decina d’anni da quando i nostri percorsi politici avevano preso strade diverse. Eppure, nell’incontrarsi, bastava uno sguardo fra noi per dirci in buona sostanza che le cose in fondo non erano cambiate.
In questa sorta di intesa non c’entrava quel che accadeva nel mondo – grandi mutamenti investivano tempi piuttosto interessanti – quanto il trattamento che veniva riservato al pensiero laterale e a chi quella sensibilità sincretica cercava di interpretare.
Così il carattere aperto, la ricerca, la mitezza venivano scambiate per moderazione e arrendevolezza. Che nelle prerogative verticali, maschili e autoritarie delle strutture (di partito e non solo) diventavano motivo di emarginazione. La forza era data dai numeri, nelle piccole appartenenze forse ancor più che in quelle più robuste.
Avevamo imparato a sorriderne, ma questo non diminuiva certo il dolore e la fatica del sentirsi inascoltati o mal sopportati.
Se lasciamo cadere la memoria nella retorica, le nostre appartenenze erano allora all’insegna della passione rivoluzionaria, dell’impegno rigoroso e della coerenza. Caratteri che non nego affatto (semmai andrebbero rivisitati) ma che nella storia novecentesca si sono spesso accompagnati a culture e pratiche destinate ad una tragica eterogenesi dei fini.
Malgrado ciò, è doveroso riconoscere che qualcuno cercava di far dialogare fini e mezzi, radicalità e concretezza, passione e mitezza.
Ecco, pensando a Franco Calamida mi vengono queste parole. E, insieme, un’altra considerazione. Che riguarda il valore irripetibile di un decennio a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 in cui cambiò il modo di vivere, non solo di una generazione e dopo il quale davvero nulla fu più come prima.