Il reddito di cittadinanza rimane per molti un oggetto misterioso, di cui non si conoscono a fondo impianto e finalità. Con la crisi da Covid-19, la misura è al centro di fraintendimenti e strumentalizzazioni. E c’è chi vorrebbe utilizzarla come leva per un’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro.
Nei giorni scorsi il Presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, in un’intervista a Milano Finanza ha chiesto la possibilità di ripristino dei voucher e “la concessione di un lavoro temporaneo a chi percepisce il reddito di cittadinanza”. Analoghe prese di posizione sono state espresse da altri imprenditori agricoli e rappresentanti di categoria. Nel dibattito pubblico, il Reddito di cittadinanza (Rdc) è oggetto di un grande fraintendimento, fino al punto che si è arrivati a proporre di “mandare a lavorare nei campi i beneficiari”.
In realtà, dietro a un dibattito impostato in questi termini, si nascondono almeno due grandi malintesi. Innanzitutto, in Italia non manca la possibilità di assumere i lavoratori con contratti discontinui, tanto che – purtroppo – il lavoro precario continua a essere la tipologia dominante nel nostro mercato del lavoro. Proprio per questo, i beneficiari del Rdc non sono e non possono diventare ulteriore manovalanza a costo zero, sia pure in una congiuntura particolare come quella che stiamo vivendo. Sostenere una posizione del genere – oltre a riportare indietro le lancette della storia all’Ancien Régime, o prima – vuol dire non conoscere ciò di cui si sta parlando.
I datori di lavoro italiani hanno continuato a preferire l’adozione di rapporti di lavoro a termine di breve durata anche nel periodo di (relativa) ripresa economica degli ultimi due-tre anni, un decennio dopo la grande crisi del 2008. Solo nel biennio 2015-16, con le misure di incentivo introdotte nel contesto del “Jobs Act” e finalizzate a ridurre il differenziale di costo al margine del lavoro standard, si è verificato un picco delle assunzioni a tempo indeterminato. Tuttavia, con il venir meno di quel tipo di incentivo, sono calate anche le attivazioni di contratti a tempo indeterminato.
Oggi, i datori di lavoro non si sottraggono all’utilizzo di contratti di lavoro discontinuo – a tempo determinato, collaborazione coordinata e continuativa, somministrazione, lavoro intermittente –, anche per rapporti di breve o brevissima durata. Secondo i dati riportati in un recente studio dell’INAPP sul lavoro discontinuo di breve e brevissima durata, a marzo 2019, ad esempio, quasi un terzo delle attivazioni a tempo determinato risultava con durata effettiva brevissima, inferiore alla settimana (cfr. il working paper n. 45 di febbraio 2020, a cura di Michelangelo Filippi, Manuel Marocco, Roberto Quaranta e Sergio Scicchitano).
La conseguenza, secondo gli autori del rapporto INAPP, è che “l’utilizzo sempre più intenso da parte delle imprese delle diverse tipologie di contratti riconducibili a lavoro discontinuo ha portato alcuni studiosi a discutere di semi-occupazione o di semi-disoccupazione, proprio per definire quelle forme di lavoro intermedio tra un contratto tradizionale e un regime di disoccupazione”. Si tratta del fenomeno dei lavoratori a bassa intensità, uno dei target a cui si rivolge il Reddito di cittadinanza. Questo fenomeno include non solo i lavoratori precari, ma anche i lavoratori part time involontari, una categoria cresciuta esponenzialmente negli anni successivi alla sopra citata crisi del 2008.
Nel settore agricolo, la precarizzazione del lavoro è altissima, a causa del carattere peculiare del lavoro agricolo (la tendenziale stagionalità delle produzioni), ma soprattutto per la sovrabbondanza di manodopera disposta ad accettare condizioni di lavoro e un trattamento inadeguati agli standard cui dovrebbe adeguarsi il mercato del lavoro italiano. A fronte di questa situazione non si può tollerate che si pretenda, da parte dei datori di lavoro, di perpetuare il sistema chiedendo al Governo di “iniettare” sul mercato del lavoro nuova manovalanza a basso costo o addirittura a costo zero – peraltro stravolgendo in questo modo l’istituto del Reddito di cittadinanza.
In queste ore, al Senato, si sta discutendo la conversione in legge del decreto “Cura Italia”, con rilevanti modificazioni rispetto al testo adottato dal Governo il 17 marzo. Alcuni emendamenti che sono stati presentati inquadrano in un’ottica sbagliata il Rdc, e i relativi obblighi, a dimostrazione di quanto poco la classe politica italiana (e larga parte dell’opinione pubblica) conosca il Reddito di cittadinanza e il suo funzionamento, nonostante la rilevanza assunta dal tema nel dibattito nazionale negli ultimi mesi.
Il decreto “Cura Italia”, all’articolo 40, prevede la sospensione per due mesi (fino al 17 maggio 2020) degli obblighi a carico dei beneficiari di Reddito di cittadinanza connessi all’erogazione del beneficio, e la sospensione dei relativi termini. La finalità di tali sospensioni è quella di evitare il più possibile la circolazione delle persone sul territorio nazionale, nel quadro delle misure di contenimento adottate dal Governo che tutti noi siamo chiamati a rispettare. Gli emendamenti al testo di questa disposizione presentati al Senato spaziano da semplici variazioni lessicali all’abrogazione dell’intero articolo.
In particolare, un emendamento (il 40.2) prevederebbe che i beneficiari di Reddito di cittadinanza siano adibiti dai Comuni “alle opere di sanificazione o ad altro impiego di utilità sociale nell’ambito dello stato di emergenza dovuto alla diffusione del coronavirus”, con facoltà per i Comuni “anche di inviarli presso operatori pubblici o privati incaricati di tali operazioni”. Un altro emendamento (il 40.3) prevederebbe che “al fine di garantire la continuità lavorativa per lo svolgimento di attività indifferibili nei settori produttivi che versano in stato di emergenza occupazionale, i percettori del reddito di cittadinanza possono essere impegnati a supporto delle stesse”.
A prescindere da ogni considerazione nel merito di questi emendamenti (che appaiono irrealizzabili in concreto), proposte di modifica del genere non tengono in considerazione né le finalità e la struttura del Reddito di cittadinanza, né l’esistenza e la disciplina dei progetti di utilità alla collettività (PUC). Come è noto, il Reddito di cittadinanza è la misura fondamentale di politica attiva del lavoro, a garanzia del diritto al lavoro e del contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale; una misura diretta inoltre a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro.
L’obiettivo del Reddito di cittadinanza, analogamente a quello di altri strumenti di sostegno al reddito (cassa integrazione guadagni, Naspi, Dis-Coll) è la ricollocazione dei beneficiari sul mercato del lavoro, se necessario previa formazione. Dunque, il suo scopo è far lavorare le persone, dopo una regolare assunzione con un regolare contratto di lavoro, meglio se a tempo indeterminato. Non a caso, la legge istitutiva del Rdc prevede uno sgravio contributivo per il datore di lavoro che assuma i suoi beneficiari a tempo pieno e indeterminato. Non solo: i beneficiari di Reddito di cittadinanza hanno l’obbligo – sanzionato dalla condizionalità – di accettare una delle offerte di lavoro definite congrue: essi pertanto (a meno che non versino in condizioni di esclusione o esonero) sono già a disposizione del mercato del lavoro; e la normativa di settore riserva un trattamento di favore al datore di lavoro che intenda assumerli.
L’assunzione a tempo determinato, o con altre forme di rapporto di lavoro, non è tuttavia preclusa: il beneficiario che svolge un’attività lavorativa superiore alle 20 ore settimanali – pur non superando i requisiti reddituali per ricevere il Reddito di cittadinanza – è esonerato dalla sottoscrizione del Patto per il lavoro; il beneficiario che percepisce redditi superiori alla soglia prevista dall’imposta sui redditi è escluso dagli obblighi di condizionalità, proprio in quanto si tratta di lavoratori. Deve risultare chiaro allora che lo scopo del Reddito di cittadinanza è quello di avviare i beneficiari a svolgere una regolare attività lavorativa – producendo redditi propri e contribuendo direttamente alle imposte e ai contributi previdenziali – e non a lavorare pro bono patriae.
Ciò nonostante, la legge istitutiva del Reddito di cittadinanza ha previsto e regolamentato i progetti di utilità alla collettività (PUC). I beneficiari di Reddito di cittadinanza che hanno sottoscritto il Patto per il lavoro presso il Centro per l’impiego, o il Patto per l’inclusione sociale presso i Servizi sociali (e quindi non i beneficiari di Reddito esclusi o esonerati da tali obblighi, per i vari motivi previsti dalla normativa), sono tenuti a offrire la propria disponibilità a progetti utili alla collettività, da svolgere nel Comune di residenza per almeno 8 ore settimanali, aumentabili fino a 16. Ai beneficiari impegnati in queste attività è garantita la copertura assicurativa Inail per gli infortuni.
Il mancato assolvimento dei PUC, o la mancata disponibilità a svolgerli – qualora il Comune di residenza li abbia attivati – comporta la decadenza del beneficiario dal Reddito di cittadinanza. La legge prevede sei ambiti di attività riguardo ai quali i Comuni possono attivare i PUC: (a) ambito culturale; (b) ambito sociale; (c) ambito artistico; (d) ambito ambientale; (e) ambito formativo; (f) ambito di tutela dei beni comuni. I beneficiari di Rdc sono assegnati agli ambiti di attività in coerenza con le competenze professionali del beneficiario e con quelle acquisite in ambito formale, non formale e informale rilevate nel colloquio sostenuto presso il Centro per l’impiego (con l’assistenza tecnica dei Navigator e dei collaboratori di Anpal Servizi) o presso i Servizi sociali.
Sono queste, dunque, le coordinate attraverso cui si dovrebbe muovere chiunque voglia discutere di Reddito di cittadinanza. Alcuni degli emendamenti al testo del decreto “Cura Italia”, invece, per come sono stati scritti, dimostrano che il Rdc rappresenta ancora un oggetto misterioso. In conclusione, a seguito dell’emergenza Covid-19 la situazione che si prospetta per i prossimi mesi sfugge a ogni scenario ipotizzabile anche solo un mese fa. Ma difficilmente si può pensare che un’ulteriore precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro dipendente possa essere la soluzione ai problemi posti dalla fase post-emergenziale. E a maggior ragione se tutto ciò dovesse passare attraverso lo stravolgimento della principale misura di politica attiva del lavoro italiana: il Reddito di cittadinanza, appunto.