Quanto è letale il coronavirus? Chi sono le persone più esposte e colpite? Quali le modalità del contagio? Questioni cruciali per adottare giuste misure e favorire l’uscita dall’emergenza. E capire gli errori.
Premessa
I decisori pubblici in questo momento non si trovano di fronte alla scelta fra salvare l’economia oppure le vite umane, potendosi appellare a un rassicurante “la vita umana non ha prezzo”, ma dovrebbero affrontare il dilemma se difendere dal contagio vite aggiuntive “a qualunque costo”, oppure preservare da povertà, malattia e morte un numero di vite con ogni probabilità ben superiore, attivando rapidamente un piano che consenta al paese di mettersi in funzione con gradualità informata e “intelligente”. Non dobbiamo nasconderci che in ogni modo sarà impossibile impedire che ci siano esiti improntati sulla disuguaglianza sociale, ma dobbiamo comunque essere consapevoli che non imboccare per tempo la seconda strada, che privilegia il contenimento della povertà primariamente con la creazione e la difesa del lavoro, avrà effetti sociali, anche di ordine pubblico, drammatici.
Sebbene in molte università e laboratori di ricerca privati si stia lavorando a ritmi serrati a un vaccino adatto alla produzione industriale in centinaia di milioni (o forse miliardi?) di esemplari, si sa per certo che un eventuale vaccino prima del 2021 inoltrato non sarebbe somministrabile. Sembra pertanto evidente che le politiche di lockdown totale adottate non possano attendere l’immunità eventuale creata in futuro da campagne estese di vaccinazione. Le persone, le imprese, le scuole, il Parlamento, ossia, in breve, la Società tutta, non sono in grado di reggere per tempi ancora lunghi l’attuale condizione di sospensione. Contemporaneamente, le politiche di contenimento “leggero” del contagio – comunque indispensabili per limitare gli accessi al sistema sanitario ora al collasso – necessitano più che mai di piani ben informati sulle logiche della morbilità del virus che, oltre agli aspetti biologici e clinici, prendano in considerazione anche ciò che si potrebbe chiamare “funzionamento sociale e territoriale del contagio”.
I tempi di applicazione di tali misure non vanno sottovalutati, perché il blocco del sistema economico e il prolungato confinamento in casa della popolazione avranno conseguenze molto pesanti, non solo sullo stato dell’economia e dunque sul benessere materiale dei cittadini, ma anche, direttamente, sulla salute e sulle speranze di vita dei singoli. Per le persone anziane, e in generale per quelle fragili, si potrà verificare in breve tempo un netto peggioramento della salute a causa della prolungata impossibilità di svolgere attività all’aperto, di organizzarsi adeguatamente ed essere eventualmente aiutati dai famigliari, ma anche di ricevere le cure necessarie dal sistema sanitario. D’altronde, la drastica riduzione dei redditi e la crescita del numero delle famiglie in situazione di grave indigenza (Oxfam calcola che saranno mezzo miliardo i nuovi poveri causati dal coronavirus) faranno aumentare i decessi, perché fra povertà e morte c’è una relazione matematica nota. Molti, peraltro, si stanno oggi rendendo conto che l’agognato “ritorno alla normalità” non dovrà essere un rattoppamento del modello neo-liberista precedente, perché è stato proprio quel sistema, fondato sullo sfruttamento intensivo e dissennato di tutte le risorse naturali e del lavoro umano, a stravolgere l’ambiente e il suo equilibrio con gli esseri viventi.
Le pandemie virali succedutesi sempre più minacciose nei decenni sono frutto di quella a-normalità, cui non si dovrà più tornare, perché il ricorso massiccio agli antibiotici nei giganteschi allevamenti di tipo industriale ci espone a gravi infezioni incurabili a causa della nuova resistenza dei batteri agli antibiotici stessi; le deforestazioni per fare spazio alle monoculture intensive scacciano gli animali selvatici dal loro habitat protettivo, esponendoli, insieme ai loro virus, al contatto con gli umani; i contadini, espropriati dei campi di cui non sono in grado di dimostrare il diritto di proprietà consuetudinario, diventano schiavi nelle nuove piantagioni, oppure, i pochi che ne hanno le risorse, dopo lunghe e pericolose marce della speranza verso l’Europa o gli Stati Uniti, alla fine incontrano porti chiusi e muri.
Che cosa sappiamo sull’epidemia di Covid-19 in Italia
Né in Italia, né negli altri paesi, è noto il numero effettivo dei contagi, con o senza sintomi, e le proiezioni diffuse sono ancora poco affidabili. Anche sui decessi si hanno dati solo parziali, poiché in molti casi (non quantificabili per ora) mancano le diagnosi con tampone e non è comunque del tutto chiaro il criterio di somministrazione dei test. Sta facendosi strada la certezza che dai numeri ufficiali sulla letalità del virus manchino molti decessi avvenuti nelle abitazioni private, nelle residenze per anziani e finanche negli ospedali, confusione causata dall’impreparazione organizzativa e inadeguatezza di risorse di fronte all’epidemia, frutto dei tagli ventennali alla sanità pubblica e lo spostamento di risorse in favore del sistema privato.
Le fonti ufficiali e anche i media evidenziano notevoli differenze fra regioni, solo in parte dovute ai tempi di sviluppo differenziati, e per questo, in assenza di screening di massa, non si può escludere che i casi asintomatici o pauco-sintomatici, mai rilevati, abbiano ampia diffusione omogenea in tutto il paese. In tal caso fra le regioni potrebbero esserci differenze esclusivamente nella severità dei sintomi. Sull’ampia varianza territoriale della letalità mostrata dai dati della Protezione Civile e di Iss sono sorte alcune perplessità. In particolare, Luca Ricolfi su vari media molto frequentati (il quotidiano Il Messaggero, canali televisivi, il sito della Fondazione David Hume) ha sostenuto in modo “congetturale” che le regioni settentrionali e le Marche appaiano ingannevolmente le più colpite solo perché penalizzate dall’aver virtuosamente somministrato un maggior numero di test e ricoverato molti più contagiati. Nelle regioni centro-meridionali, invece, notoriamente le più carenti per strutture ospedaliere, una stima realistica dei morti (enorme davvero) si otterrebbe moltiplicando per 23,5 il tasso ufficiale di letalità.
Tale congettura, tuttavia, oltre che allarmistica, mi è sembrata immediatamente poco verosimile, non fosse altro perché al Sud nessuno ha mai segnalato di vedere intorno a sé un’emergenza epidemica di tale entità. A Bergamo e Brescia nessuno sarebbe stato in grado di nascondere la tragedia. Mi domando come possano riuscirci in altre regioni.
E in effetti, semplici elaborazioni dei dati pubblicati dall’Istat (gli stessi usati da Ricolfi) mi hanno rivelato una geografia della letalità epidemica (cfr. tabella sopra) non incompatibile con il quadro fornito dalla Protezione Civile. L’incremento dei decessi dei primi ventotto giorni del mese di marzo 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019, che può essere considerato una stima dei decessi dovuti al Covid-19, conferma che nel campione di Comuni del Sud esso è decisamente più contenuto che nel resto d’Italia (+33,1% contro +133,4% medio nelle regioni più colpite, e quasi +800% di decessi maschili a Bergamo e poco meno che +400% a Brescia).
La constatazione che il campione Istat include solo i Comuni con un numero di decessi in eccesso anomalo rispetto al 2019 e che al Sud tali comuni anomali sono in numero veramente ridotto, fa presumere che nella gran parte di quelle regioni ci sia stato un numero irrisorio di decessi in eccesso attribuibili al Covid-19. Svelando, con ciò, come l’allarmismo di Ricolfi si fondi su una indebita attribuzione all’intero Mezzogiorno di indicatori sovrastimati perché calcolati sulla base di pochi casi anomali. Peraltro, è in piena sintonia con tali conclusioni una ricerca del San Raffaele e il John Hopkins Center for Humanitarian Health, pubblicata sull’ultimo numero di Acta Biomedica, nella quale si stima che i contagi effettivi in Lombardia riguardino il 13,3% della popolazione, contro il ridotto 0,35% in Sicilia e Basilicata e pochi decimali in più nel resto del Sud.
In Italia, più che altrove, è notevole anche la varianza per classi di età, sia nelle probabilità di contagio sia soprattutto nel fatality rate. In pratica sono pochi i bambini e adolescenti che si contagiano (solo il 1,8% del totale dei diagnosticati) e non corrono alcun rischio di esito infausto (fatality rate 0). Anche la classe di età successiva, da 20 a 40 anni, gode di ottime di protezioni dal contagio (solo il 25%), e soprattutto dal decesso (solo 1,1% dei decessi, con letalità 0,2), nonostante per lo stile di vita e la condizione lavorativa dovrebbero essere i più esposti. Secondo dati Iss, dei 19.996 deceduti con diagnosi Covid-19, al 16 aprile i deceduti con età inferiore a 40 anni sono stati solo 42, dei quali si sa che ben 28 erano affetti da gravi patologie. Con ciò non intendo banalizzare la tragedia delle morti, bensì evidenziare che i giovani e gli adulti, se in salute (e presumibilmente con stili di vita non nocivi, come abuso di alcol, cibo, fumo, droghe), corrono rischi molto limitati di ammalarsi in modo severo.
Gli anziani costituiscono il maggior numero sia dei contagiati, la cui età media è 62 anni, sia dei deceduti, tutti concentrati intorno alla età media di 79 anni (età mediana 80). Dal punto di vista territoriale, dove il contagio è più intenso, fra i positivi al test la quota di persone con più di 70 anni è più elevata (oltre il 40% nelle quattro regioni più colpite, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Marche, secondo dati Iss, del 7 Aprile), segno che la progressione del contagio avviene a spese dei più anziani. Inoltre, praticamente tutti gli anziani deceduti con diagnosi acclarata (96,7%) erano portatori di altre patologie diagnosticate (il 61,8% addirittura con tre o più). Anche in questo caso la forte incidenza delle patologie concomitanti nulla toglie alla gravità della letalità, ma ci dice anche che gli anziani, se sani e, come vedremo più avanti, se non sono ricoverati in una comunità residenziale, corrono veramente pochi rischi di non sopravvivere al contagio.
In Italia, come altrove, sembra ampia anche la differenza fra i sessi. Secondo i dati Iss del 16 aprile, le donne decedute sarebbero poco più della metà degli uomini, pur essendo la maggioranza nella popolazione perché più longeve, e presentano uno strabiliante vantaggio rispetto agli uomini nel tasso di letalità (fatality rate, numero dei deceduti sul numero dei diagnosticati), il quale in tutte le classi di età è di 1 a 2 in loro favore. Una ricerca dell’Istituto Cattaneo, pubblicata l’11 aprile, stima che le donne decedute per Covid-19, in base ai dati Istat sui decessi giornalieri già citati, siano molte di più di quanto risulti alla Protezione Civile, a causa della prevalenza delle donne fra gli ospiti delle RSA prive di test.
In ogni caso, è certa la maggior capacità femminile di guarigione, per la quale alcuni studiosi stanno ipotizzando possibili effetti del regime ormonale (Aloisi, 2020). Ma è realistico domandarsi se non abbiano un ruolo importante anche variabili sociologiche connesse con il genere, molto differenziate fra uomini e donne nella generazione degli ottanta-novantenni in questione. Penso in primo luogo all’esposizione a lavori usuranti, sostanze nocive, intemperie e fatica fisica, alla pratica del fumo, che negli anni ’40 e ’50, quando gli anziani di oggi erano ragazzi, era molto più diffusa fra i maschi, e anche all’abuso di alcol e droghe. Potrebbe, infine, essere influente anche una maggiore attitudine femminile a prestare attenzione ai messaggi del proprio corpo, a richiedere e seguire poi scrupolosamente le indicazioni del medico e ad aggiornare meticolosamente il piano vaccinale.
È invece ormai drammaticamente certo che i contesti di vita delle persone fanno una differenza enorme. Per chi vive nelle comunità residenziali, come le RSA per anziani o disabili, i conventi di religiosi, e anche per chi è ricoverato in un ospedale, le probabilità di contagio e di esito infausto sono molto elevate. Ma anche su questo c’è carenza di dati sistematici e trasparenti. Non si ha notizia, invece, di contagi anomali per numero e decorso nelle strutture residenziali, a regime semi-alberghiero privato, per anziani autosufficienti benestanti. Quanto ai penitenziari, anche lì mancano dati davvero affidabili, tra l’altro perché molti detenuti sfuggono al novero dei contagiati perché collocati in regime di detenzione domiciliare per precauzione sanitaria.
Veniamo ora ai luoghi di lavoro. I dati ufficiali, compresi quelli Inps, non mostrano numeri significativi di contagi accertati nelle imprese – anche in quelle tuttora in funzione e dove molte persone sono costrette in spazi ristretti, si pensi ai call center, le aziende di logistica, i supermercati. Il grande impegno delle organizzazioni sindacali sulla questione della sicurezza dei lavoratori ha di certo avuto effetti di prevenzione e protezione importanti, che non devono essere vanificati con modalità avventate di riapertura delle aziende. Sarebbe molto importante disporre di dati su contagi e gravità dei sintomi disaggregati per i diversi settori e singole aziende. Il sindacato potrebbe avere un ruolo cruciale nel raccogliere e rendere pubbliche tali informazioni. Attualmente gli unici contesti lavorativi in cui si ha notizia di un numero di contagi elevato fra il personale addetto, con tasso di letalità a sua volta molto grave, sono le strutture residenziali, ossia gli ospedali, le RSA per anziani, gli istituti di reclusione.
A mia conoscenza, infine, per i grandi centri urbani mancano informazioni sul quartiere di residenza dei contagiati, che invece sarebbero utili per mappare i focolai e individuare i fattori connessi con la segregazione urbana, importante proxy della condizione sociale dei soggetti, dei loro stili di vita e di consumo, e delle condizioni di insalubrità del loro ambiente di vita. Le cartelle cliniche dei ricoverati potrebbero essere preziose a questo fine.
Quali domande dobbiamo porre
I dati fin qui riassunti, per quanto imprecisi, stimolano alcune domande per la formulazione di policies efficaci e parsimoniose di uscita graduale dall’emergenza. Le modalità del contagio e dei suoi esiti severi o letali, infatti, oltre a caratteristiche biologiche del virus stesso – attualmente allo studio in molti laboratori scientifici – e a condizioni fisiologiche e cliniche preesistenti dei soggetti colpiti, potrebbero essere legate a una serie di variabili di carattere socio-epidemiologico all’interno di un modello di relazioni complesso. Variabili che hanno uno stretto legame diretto o indiretto con la struttura delle disuguaglianze e che, se prese da sole, non sono in grado di “spiegare” la morfologia della propagazione dell’epidemia, ma potrebbero diventare cruciali nel modo con cui si combinano fra di loro. Alcune potrebbero influire sulla maggiore diffusione del virus in certe aree, altre sulla varianza della gravità dei sintomi fra gruppi diversi di popolazione.
Partiamo dalle differenze fra i territori. Alcuni demografi del Nuffield College di Oxford (Dowd, 2020) ai primi di marzo hanno formulato l’ipotesi che la concentrazione di contagi gravi o letali in Lombardia fosse dovuta all’interazione fra la struttura per età della popolazione e la consuetudine, particolarmente diffusa proprio nel Nord Italia, di risiedere in prossimità dei genitori e di spostarsi giornalmente per raggiungere il luogo di lavoro (Istat, 2018). Una spiegazione suggestiva, che tuttavia non regge al confronto con altri contesti simili per struttura anagrafica della popolazione e vicinanza fra le generazioni. Penso alle grandi conurbazioni giapponesi, ben lontane dalla situazione epidemiologica lombarda, nonostante l’altissima longevità (la più alta del mondo) e la pratica frequente della coabitazione stabile di tre generazioni in spazi abitativi ristrettissimi.
Non sfugge ai più che in Italia la massima concentrazione del contagio e della sua letalità appare localizzata nelle regioni più ricche del paese, dove la presenza di imprese industriali è capillare e sono molto fitti gli scambi di persone e manufatti con il resto del mondo, ma anche, proprio per questo, vi è grande inquinamento. Emile Durkheim direbbe che lì la modernità industriale ha prodotto, insieme alla “densità materiale”, anche elevata “densità morale”. Paolo Perulli (2012), alcuni anni addietro, parlava del Nord come città-regione globale e di un ruolo “super-gravitazionale” di Milano (Perulli, Pichierri 2010). Guardata con questi occhiali la carta geografica italiana dell’epidemia appare una ribellione della natura contro l’impronta violenta dell’uomo.
Tuttavia anche in questo caso non è difficile trovare altre aree, per esempio l’Europa centrale, che sono simili alla Lombardia o all’Emilia Romagna dal punto di vista socio-economico, ma, probabilmente, diverse da quello epidemico. Potrebbero influire la diversa struttura delle famiglie, “lunghe” in Italia (Scabini, Donati 1988), con i figli conviventi fino a età molto avanzata, ma non nei paesi centro e nord-europei, dove le generazioni vivono invece separate; e anche livello e tipo di sostanze presenti nell’aria, che fanno della pianura padana una delle aree più inquinate d’Europa (Conticini, 2020; RIAS, 2020). Un servizio di Report (Rai Tre, 13 aprile) ha documentato che, nelle aree lombarde ed emiliane epicentro dell’epidemia, gli allevamenti a carattere industriale e i loro liquami usati come fertilizzanti in agricoltura sono fonte di un tipo specifico di inquinamento, che ha picchi stagionali proprio nel periodo dell’esplosione del contagio.
Ricordo, inoltre, che nel mese di gennaio e in parte di febbraio, in Emilia Romagna e Lombardia ci sono state numerose manifestazioni di piazza molto affollate, proseguite ben oltre la campagna elettorale per l’elezione del Presidente della Regione Emilia Romagna, quando ha fatto esordio il movimento delle “Sardine”, il cui nome allude, oggi minacciosamente, proprio dall’invito a stare stretti assieme. Poi il 20 febbraio, un’improvvida partita di calcio a San Siro fra Atalanta e Valencia ha attirato a Milano quarantamila tifosi bergamaschi. Tutte occasioni di propagazione del virus già abbondantemente in circolazione, sebbene con la disattenzione di tutti. Ma questi eventi, che hanno coinvolto prevalentemente giovani e giovani adulti, non bastano da soli a spiegare entità e soprattutto letalità in modo specifico fra gli anziani della pianura padana.
Probabilmente, insieme ad altri fattori, cruciale è stata la circostanza, forse casuale, che l’infezione in prima battuta sia stata diagnosticata in piccole strutture ospedaliere di provincia, poco attrezzate e del tutto impreparate sui protocolli da impiegare in caso di epidemia: i primi ricoverati, non isolati immediatamente in reparti protetti a loro dedicati, hanno infettato i medici e gli infermieri, gli altri pazienti, i parenti cui era consentito recarsi in ospedale senza alcuna precauzione, e via via i loro i famigliari a casa, gli amici. Il contagio ha così preso velocità, probabilmente favorito dalla vita di comunità tipica degli anziani nei piccoli centri, soprattutto gli uomini, abituati a fare capannello nelle piazze, ritrovarsi al bar a discutere di calcio, giocare a carte in locali affollati e poco aerati. E ora si sta anche scoprendo con orrore che il virus ha fatto stragi nelle residenze sanitario-assistenziali, sulle quali sono in corso numerose indagini della Magistratura. Anche medici e infermieri, per la carenza di materiale di protezione e l’affollamento dei reparti Covid-19, sono stati contagiati in grande numero con letalità a sua volta elevata.
Raccomandazioni
Pur nella loro parzialità e scarsa comparabilità, i dati consentono di fare alcune affermazioni di sintesi, accompagnate da raccomandazioni di politiche.
In Italia si ammalano in modo grave, con probabilità elevate di esito letale, persone anziane, affette da numerose patologie, in particolare se sono ricoverate nelle RSA o in qualche reparto ospedaliero.
Bambini, giovani e adulti corrono bassi o nulli rischi di contagio grave, se non sono afflitti da patologie serie e, in ipotesi, se non sono dediti a pratiche nocive per la salute in generale e per il sistema respiratorio nello specifico (fumo, droghe, alcol, zuccheri in eccesso, eccetera).
Le donne, in tutte le classi di età, rispetto agli uomini, dopo il contagio hanno la metà delle probabilità di incorrere in esito letale. Meno netta la situazione se si considerano anche i deceduti senza diagnosi acclarata nelle RSA.
È assolutamente plausibile che i tempi della prima insorgenza e l’intensità della diffusione del contagio siano connessi con il livello di industrializzazione nel settore manifatturiero e in quello primario, l’urbanizzazione diffusa sul territorio, la quantità degli scambi di persone e manufatti interni all’area e con il mondo esterno, mentre il tasso di letalità potrebbe essere influenzato dai gravi problemi di funzionamento di sanità e assistenza a livello locale, oltre che dalla concentrazione di sostanze inquinanti nell’ambiente, con eventuali picchi proprio in quel periodo.
L’elevato fatality rate ufficiale in Italia è connesso solo in parte con la struttura per età della popolazione, poiché altri paesi, come la Germania e il Giappone, ugualmente o più longevi, sembrano presentare rischi di decesso decisamente più bassi. Oltre che da eventuali ragioni di imputazione burocratica delle cause di morte, potrebbe dipendere da un peggiore stato di salute degli anziani italiani e, senza ombra di dubbio, da gravissime carenze del sistema sanitario e assistenziale. Le Amministrazioni Regionali delle zone più colpite, con poche risorse a disposizione e pochissime competenze di salute pubblica e medicina delle catastrofi, hanno sottovalutato l’emergenza, non hanno saputo dare risposte efficaci e coerenti e non hanno neppure dimostrato consapevolezza delle conseguenze delle loro scelte.
A questo punto, però, proprio sulla base del quadro delineato, sono assolutamente convinta che per minimizzare nuove sofferenze e lutti sia necessario che il Governo debba rapidamente e primariamente consentire alle persone di riprendere a vivere. Togliere oltre la libertà e stravolgere l’esistenza di sessanta milioni di cittadini è misura sproporzionata, foriera di gravi conseguenze sociali e perfino inutile, dal momento che la stragrande maggioranza di noi corre rischi irrisori di complicanze gravi, vuoi perché viviamo nelle molte regioni solo sfiorate dall’epidemia, vuoi perché siamo sani (e non ricoverati nelle RSA).
Il Governo deve (1) attuare immediatamente poderosi investimenti nel sistema assistenziale e nella sanità pubblica (sia ospedali sia medicina di base), per proteggere adeguatamente le persone più fragili o più esposte, già ricoverate o che dovessero ammalarsi, (2) predisporre regole temporanee di prudenza per chi (non necessariamente solo anziani) è affetto da patologie che riducono la capacità di risposta immunitaria e guarigione. Mi preme sottolineare che anche nei confronti di queste persone fragili vanno assolutamente esclusi sia un ulteriore confinamento in casa, sia il divieto di intrattenere relazioni con i parenti e gli amici, perché queste limitazioni, se obbligatorie, si trasformerebbero in un’importante causa aggiuntiva di malattia e morte, (3) consentire agli altri, i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani in salute, di riprendere la loro vita di relazione e le loro varie attività, sulla base della considerazione che, anche negli attuali momenti tremendi, essi in effetti non hanno corso rischi significativamente superiori a quelli cui si sono deliberatamente esposti fino a ieri, nell’indifferenza delle istituzioni, adottando diete non sane, scendendo spericolatamente su una pista ghiacciata, mettendosi al volante dopo una nottata in discoteca o, ancora, abusando di alcol e assumendo cocaina e altre droghe sintetiche. Per il futuro, a parer mio, in attesa della disponibilità di un vaccino, saranno sufficienti l’applicazione di norme rigide di sicurezza e igieniche e, si spera stabilmente, l’abbandono di stili di vita dannosi in sé alla salute e all’ambiente.
Quest’esperienza, così scioccante per i singoli e per la collettività, potrebbe averci fatto riflettere sul valore della vita e quindi disporci ad assumere comportamenti più rispettosi di noi stessi, degli altri e della natura. Ma l’occasione epocale della pandemia, come gli storici documentano in occasione di altre pesti del passato, deve essere l’ammissione che il neo-liberismo, trent’anni esatti dopo il fallimento del sistema comunista, è esso stesso crollato sotto la sua insostenibilità sociale e ambientale. L’Italia che si infetta e muore soffocata proprio nelle sue regioni più orgogliosamente ricche è una metafora drammatica delle logiche del mercato globale, le stesse che hanno imposto di organizzare sanità e assistenza con le regole del business e di produrre altrove quelle mascherine e quei respiratori che avrebbero potuto salvare la vita a migliaia di nostri concittadini.
È stato assurdo e colpevole illudersi di poter essere liberi, ricchi e sani in pochi, in un mondo fatto di poveri che premono ai cancelli delle nostre dimore e ai confini delle nostre nazioni, in un pianeta sempre più malato. Ma ora analogamente imperdonabile sarebbe, per una paura sproporzionata e ingiustificata, accettare di perdere le libertà garantite dalla nostra Costituzione.
* Maria Luisa Bianco, già Professore Ordinario di Sociologia, Università degli studi del Piemonte Orientale
Riferimenti
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