SvendItalia/Per cent’anni, Terni e «la Terni» sono state un’unica cosa. Oggi quella fabbrica è sballottata da una multinazionale all’altra
Per cent’anni, Terni e «la Terni» sono state un’unica cosa. La città sentiva che la fabbrica è stata costruita e fatta funzionare con il lavoro di generazioni di operai, fonte di sussistenza per migliaia di famiglie, era cosa sua. L’azienda sentiva a sua volta che la città le apparteneva – la dominava e, sia pure paternalisticamente, se ne sentiva responsabile. I dirigenti vivevano in città, gli operai li salutavano con deferenza in piazza e li andavano minacciosamente a cercare a casa per punirli dei licenziamenti.
Il rapporto ha resistito, forse più sul piano della cultura e dei sentimenti che su quello economico, anche mentre il modello aziendale polisettoriale si andava sfaldando, con lo scorporo dell’elettricità, e della chimica e la frammentazione di parti dell’acciaieria. Quando nel 1994 l’azienda passa da una (scadente) gestione pubblica alla multinazionale tedesca Thyssen Krupp, le istituzioni credono all’intenzione dei nuovi proprietari di continuare il rapporto con la città, e gli operai le riconoscono l’impegno di rimettere in sesto la fabbrica.
Poi, nel 2004, la Thyssen Krupp annuncia la chiusura del reparto magnetico, la produzione più avanzata. Correttamente – i fatti del 2014 lo confermano – gli operai capiscono che è l’inizio di uno smantellamento progressivo. Cittadini, operai, istituzioni scoprono che un secolo di fiducia e reciproca responsabilità sono svaniti. In piazza, il sindaco Paolo Raffaelli denunciava il «tradimento della parola data»: «Il gioco delle tre carte dovrebbe essere una specialità italica, e invece sono i tedeschi che hanno giocato con le carte truccate». Un sindacalista Cisl ribadiva: «Hanno tradito quel rapporto di fiducia, hanno tradito la lealtà con cui avevamo affrontato le relazioni in fabbrica». Gli operai nei cortei e sui picchetti ricordavano i padri e i nonni che in quella fabbrica avevano buttato fatica e passione credendo che fosse la loro. L’azienda feriva, con l’economia, i sentimenti, la cultura, l’etica, la storia di una città.
L’identità tedesca della multinazionale diventa allora il perno del risentimento, intriso di tutto l’immaginario antitedesco, dalla Resistenza a Italia-Germania 4-3. Ma al di là degli stereotipi, questo era il sintomo di una consapevolezza dolorosa: i ternani sono nelle mani di un potere lontano e inaccessibile a cui non importa niente di loro. Il sindacato parla di «feudalesimo industriale», il sindaco accusa i «potenti signori della multi-nazionale» – dove signori rinvia più alle signorie medievali che al business contemporaneo: «i signori della Thyssen e della Krupp, presi dalla loro insopportabile dynasty tedesca, dai loro intrighi geopolitici».
«La perdita del posto di lavoro nell’immediato è il trauma più grosso – diceva un operaio – significa rimettere in discussione tutto un tipo di società. Il discorso della multinazionale, i cori contro i ‘tedeschi’, forse significano che in questo sistema uno non ha più la possibilità di decidere sul proprio territorio. Non hai nessun potere decisionale; ti senti espropriato, veramente colonizzato».
Oggi questa fabbrica – un bene culturale fatto di passioni, lotte, saperi operai, oltre che una risorsa produttiva – è sballottata da una multinazionale all’altra, dai tedeschi ai finlandesi e di nuovo ai tedeschi come un intralcio indesiderato. Il lavoro non conta niente, i cittadini non hanno voce, le istituzioni sono impotenti sul territorio, incapaci o subalterne al governo. Dieci anni di vertenze ternane parlano a tutti: noi siamo invisibili per il potere, e il potere è invisibile a noi. Come cantava Bob Dylan, «la faccia del carnefice è sempre ben nascosta».
Articolo apparso su il manifesto