Il paradigma consumistico è messo in crisi dal calo del potere d’acquisto delle famigli. Una riduzione dei consumi necessaria, ma non dovrebbe dipendere dall’impoverimento
Secondo l’ultima indagine dell’Istat, il reddito disponibile dei consumatori italiani è calato in termini correnti del 2%, mentre il potere d’acquisto è diminuito addirittura del 4,7%. Le famiglie spendono meno, riducono i consumi dei generi alimentari, rinviano a data da destinarsi i “piccoli lussi”.
Uno dei capisaldi del paradigma consumistico è messo in crisi dal calo del potere d’acquisto delle famiglie e dei singoli consumatori, e non da una scelta libera e consapevole. Perchè una riduzione dei consumi è certamente necessaria, ma deve essere gestita con intelligenza e non dovrebbe certo dipendere dall’impoverimento dei redditi.
“Un economista eterodosso direbbe che ciò che entra nel processo economico rappresenta risorse naturali preziose, e ciò che ne viene espulso scarti senza valore.” scriveva Georgescu-Roegen nel 1971. Questo perchè c’è un’energia disponibile o libera sulla quale l’uomo ha un quasi totale controllo, e un’energia non disponibile o legata, che l’uomo non può utilizzare. Una differenza sostanziale. Così come il calore fluisce spontaneamente dal corpo più caldo a quello più freddo, e mai viceversa, l’entropia di un sistema chiuso, e cioè la trasformazione da energia disponibile in energia non disponibile, aumenta continuamente ed inesorabilmente fino a scomparire del tutto. E del resto, tutti i tipi di energia si trasformano gradualmente in calore e questo calore si dissipa a tal punto da non poter più essere utilizzato.
Tutti gli organismi vivono sulla bassa entropia nella forma rinvenibile immediatamente nell’ambiente, ad eccezione dell’uomo: egli non solo cuoce la maggior parte del suo cibo, ma trasforma le risorse naturali in lavoro meccanico o in una varietà di oggetti utili. E facendo questo, produce una crescita del livello di entropia nell’ambiente nel quale vive: perfino nel caso della raffinazione di un minerale come il rame, la cui entropia è più bassa dopo il processo di raffinazione, causa, in ogni caso, un aumento più che equivalente dell’entropia dell’ambiente circostante.
“In termini di entropia, qualunque attività del genere ha inevitabilmente per risultato un deficit”: un deficit di energia disponibile per l’uomo, non solo per le sue attività economiche, ma per la sua stessa sopravvivenza: è un deficit di energia che diventa non disponibile fino a scomparire del tutto. L’assuefazione nei confronti dei lussi industriali e nelle comodità che vi derivano può essere anche un fattore molto positivo per noi adesso e nell’immediato futuro, ma è certamente qualcosa che si pone contro l’interesse dell’umanità nel suo insieme.
Gli economisti classici sono rimasti fedeli all’epistemologia meccanicista che era alla base dell’orientamento dei fondatori della scuola neoclassica: l’idea, cioè, di costruire l’edificio della scienza economica a partire dal modello della meccanica, quella meccanica definita da William Stanley Jevons come meccanica dell’utilità e dell’interesse individuale nella sua Teoria della economia politica.
Ad un’economia creata per incarnare e riprodurre in se stessa le idee della meccanica, Georgescu-Roegen contrappone un’economia che al contrario cerca di non sovvertire con le sue analisi le leggi della fisica ed in particolare della termodinamica, che della fisica è una branca molto particolare. Un’economia, in altre parole, radicata nel mondo che cerca di influenzare con i suoi scambi e le sue transazioni. Un’economia che non finge che il processo economico sia isolato ed autosufficiente, indipendente dal contesto nel quale si muove e che la rende possibile. Un’economia che ha un rapporto di reciproca influenza sull’ambiente naturale e che di questo deve rendere conto. Anche se in molti hanno cercato di non tener conto dell’inevitabilità delle leggi della fisica e delle loro conseguenze; hanno finto di vivere in un mondo incorruttibile, immortale, infinitamente ed illimitatamente a loro disposizione.
Il mito pericoloso della scienza economica di cui l’uomo è ormai schiavo è l’idolatria della crescita del Prodotto interno lordo, la divinizzazione del possesso delle merci e della ricchezza, la chimera di una crescita illimitata.
In uno spazio finito, chiuso, limitato da confini, la materia e l’energia circolano e si muovono tra organismi produttori, i vegetali, organismi consumatori, gli animali, e decompositori, che riciclano parzialmente gli scarti rendendoli nuovamente disponibili. L’energia che attraversa i processi economici, al contrario, si sposta continuamente dal momento della produzione a quello del consumo, e sebbene la sua quantità rimanga invariata, la sua qualità peggiora inesorabilmente.
Ma non solo: diminuisce anche la capacità della Terra di assorbire gli scarti del processo industriale di fabbricazione delle merci, per non parlare dell’inquinamento di rifiuti tossici e radioattivi. Il 20 agosto scorso c’è stato l’Ecological Debt Day o Earth Overshoot Day. Si tratta del giorno nel quale il consumo dei beni naturali nel mondo supera la quantità di quegli stessi beni prodotta nell’intero anno. Una data, questa, calcolata dal Global Footprint Network di Londra, che ogni anno si sposta indietro: nel 1987 era il 19 dicembre. Il nostro debito ecologico nei confronti della natura è immenso e ormai insostenibile.
In questa parte di mondo ogni pochi anni ogni cittadino sente il bisogno di una nuova auto, di un secondo frigorifero e dell’ultimo modello di I-pad: si tratta di cose che non sono affatto necessarie alla sopravvivenza, ma che nello stile di vita occidentale sono viste come diritti acquisiti di cui non si può più fare a meno.
Quindi, sì, dobbiamo ridurre i nostri consumi, ma in modo intelligente ed efficace: dobbiamo imparare a consumare meno per consumare meglio. Il punto è però che in tempi di crisi, consumare meno significa sempre consumare peggio.