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Il mondo diviso

Lo Human Development Report, tradotto e pubblicato in italiano fino al 2007 da Rosenberg e Sellier, ha rappresentato e rappresenta una delle più importanti iniziative dell’Onu per sostituire il Pil come indicatore unico del benessere nei vari paesi del mondo con un indicatore dello Sviluppo umano, che tiene conto, oltre che del Prodotto interno lordo […]

Lo Human Development Report, tradotto e pubblicato in italiano fino al 2007 da Rosenberg e Sellier, ha rappresentato e rappresenta una delle più importanti iniziative dell’Onu per sostituire il Pil come indicatore unico del benessere nei vari paesi del mondo con un indicatore dello Sviluppo umano, che tiene conto, oltre che del Prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto, di altri fattori, dalla salute e attesa di vita all’istruzione, alla uguaglianza di genere, alla sicurezza, ai diritti civili. Come la maggior parte dei documenti dell’Onu, come l’Agenda 2030, come i rapporti degli anni scorsi, lo Human Development Report 2015, nel commento sul tema specifico, che quest’anno è il lavoro, e nelle cifre, disegna un quadro armonico nello spazio, continuo nel tempo, del mondo. I paesi in via di sviluppo, come dice la parola stessa, si sviluppano, la vita media si allunga, i redditi e la ricchezza media crescono, la disparità di genere, in media, diminuisce, vecchi imperi, come la Cina, tornano importanti. La tecnologia distrugge posti di lavoro manuale e attività impiegatizie ripetitive, ma crea posti di lavoro intellettuale e attività innovative (è il rapporto dell’anno scorso). I paesi ricchi, come è giusto e naturale, migliorano meno degli altri: la mortalità infantile non può scendere sotto lo zero, l’alfabetizzazione non può salire oltre il 100% (ci sale qualche volta per i casi di istruzione tardiva, che si sommano a quelli di età giusta).

L’esplosione delle diseguaglianze

Quest’anno però è come se l’involucro armonioso stesse per scoppiare per la pressione dei dati allarmanti che fanno ressa. Ho salvato numerose notizie, troppe per citarle tutte, che sono il vero messaggio del rapporto. Ne traduco alcune.

“Oggi circa l’80% della popolazione del mondo possiede solo il 6% della ricchezza del mondo. L’un per cento più ricco possiederà più della metà della ricchezza del mondo entro il 2016. (In effetti il sorpasso è già avvenuto). … In effetti la somma della ricchezza di appena 80 persone eguaglia quella dei 3 miliardi e mezzo più poveri. (Oxfam ha aggiornato i conti: la notizia che bastano i 62 più ricchi ad eguagliare i 3 miliardi e mezzo più poveri è sulle prime pagine dei giornali mentre scrivo.) Nel mondo del lavoro, i salari non tengono il passo della produttività e la parte dei redditi che va ai lavoratori è diminuita. (In Italia, come si sa, la quota dei salari è diminuita più che altrove, come ci ha ripetuto Gallino finché è stato vivo, ma non sale neppure la produttività). Non basta: “C’è ragione di pensare che la produttività sia più alta nelle grandi catene globali di valorizzazione, ma che i salari siano gli stessi dentro e fuori le catene globali, ponendo dei problemi sulla ripartizione della produttività tra lavoro e capitale… Le multinazionali si servono sempre più di una forza lavoro non pienamente libera, usando un insieme di lavoratori a termine, precari, lavoratori autonomi, lavoratori a progetto, lavoratori in subappalto per aumentare la flessibilità e ridurre i costi… Una promessa implicita della rivoluzione digitale era che avrebbe accresciuto la produttività del lavoro e quindi anche la paga. Sembra che non si sia realizzata né la prima né la seconda cosa: la produttività non è crescita ai tassi attesi, e pochi dei guadagni si sono trasformati in salari più alti. In molte economie (per esempio in Olanda) il divario tra produttività e crescita dei salari è aumentato nel tempo e la situazione è anche più seria di quanto non sembri perché i salari medi mascherano le differenze crescenti: sono le retribuzioni dei meglio pagati che sono cresciute moltissimo… Il marcato aumento delle retribuzioni da lavoro più alte ha riguardato una minoranza, il 10%, l’1%, o addirittura l’un per mille. Negli Stati Uniti il rapporto tra la retribuzione (incluse le opzioni sulle azioni) degli amministratori delegati e quello dei lavoratori è cresciuto molto: da 20 a 1 nel 1965 a 30 a 1 nel 1978 a 383 a 1 nel 2000.” Si può dire che non è una novità, che lo sapevamo già. Che bastava leggere Gallino, che leggeva i dati dell’Onu e dell’Ilo. Ma il quadro generale e non solo salariale è anche più preoccupante di quello italiano. “Circa il 26% dei lavoratori del mondo ha contratti permanenti, il 13% contratti precari o a tempo, il 61% non ha un contratto. Dato che solo il 30% delle forze di lavoro del mondo ha diritto a un sussidio di disoccupazione, la flessibilità mette a rischio la stabilità delle vite dei lavoratori.”

Se si passa alle differenze di età e di genere, particolarmente importanti in un rapporto che si occupa di sviluppo umano, e quindi di equità, di giustizia, il quadro è ancora più preoccupante.

“Nel 2015 74 milioni di giovani (età 15-24) erano disoccupati. Il rapporto tra la disoccupazione dei giovani e quella degli adulti è ad un massimo storico ed è particolarmente alto negli Stati arabi ed in alcuni paesi dell’Europa meridionale, dell’America latina e dei Caraibi. Per esempio la disoccupazione dei giovani nel 2014 era 3,4 volte quella degli adulti in Italia, 3 volte in Croazia, 2,5 nella Repubblica Ceca in Portogallo e in Slovacchia. Anche la disoccupazione giovanile in sé era molto alta: 53% in Spagna, 46% in Croazia, 35% in Portogallo, 30% in Slovacchia.” Anche le differenze di genere sono alte.

“Del 61% del lavoro che viene retribuito, per lo più fuori casa, la quota degli uomini è doppia di quella delle donne, il 38% contro il 16%.” Accade l’opposto per il lavoro domestico.

Come ne usciamo?

Si può dire che il rapporto sarebbe pienamente soddisfacente se avesse esplicitamente per tema non solo il lavoro ma anche la diseguaglianza; non solo gli Stati ma anche le classi sociali. E se non proponesse di curare i mali che denuncia solo con una armonica politica dall’alto, degli Stati. Certo, si può essere contenti degli accordi sui principi, dell’esplicito abbandono della illusione del trickle down, cioè della diffusione della ricchezza dai ricchi ai poveri, mentre evidentemente avviene il contrario, ogni giorno di più. Ma di fatto gli Stati, nella stessa area, sono occupati ad accaparrarsi i soldi degli altri, il prodotto del lavoro degli altri, le tasse sul lavoro degli altri, come fanno i paradisi fiscali piccoli (Lussemburgo), grandi (Olanda, Regno Unito) e grandissimi (Stati Uniti). Qualche volta sono ferocemente divisi (come l’Arabia Saudita e lo Yemen, o Israele e l’ipotetico Stato di Palestina). Come possono, ciascuno per sé, fare politiche sociali utili universalmente? Siamo a questo disastro perché i ricchi usano il loro immenso potere nel mercato fatto apposta per loro, appoggiandosi alla potenza militare degli Stati di riferimento (le aziende multinazionali hanno nazione, alla fine – ce ne accorgiamo sempre di più). E gli Stati favoriscono i ricchi (i loro ricchi, se possibile, ma anche i ricchi stranieri) a danno dei lavoratori, perché “portano ricchezza”. I poveri cercano di emigrare, se ci riescono.

E se non ci riescono?

Fino a un certo livello di reddito e di disperazione (le due dimensioni si muovono in senso opposto) la disoccupazione genera movida, che in ogni caso non è un effetto stupendo perché dà l’illusione che la vita sia vivere alla giornata, finché dura. Mezzo secolo fa quelli che volevano vivere per l’oggi pensavano di liberarsi così dell’inferno, del paradiso, della guerra, della patria; persino della proprietà. Non è andata così, neppure nei paesi ricchi. Figuriamoci nei paesi che le potenze che hanno le portaerei adatte o le basi vicine vanno a bombardare (per liberarli dal nemico, naturalmente).

Se le condizioni sono proprio disperate, si uccide e si muore. E si diffondono ideologie omicide. Bruno Trentin ricordava con insistenza, decenni fa, che nel gran calderone delle idee del mondo di razzismi a base biologica, religiosa, etnica, ce n’è una tale riserva da bastare per una decina di mondi. Che bisogna lavorare molto per non passare dai conflitti per beni scarsi (la casa, il lavoro, lo spazio in tram o in strada, il rispetto) alle guerre di razza e di religione. Si fa presto a passare dalla aggressività sessuale, dalla violenza urbana, alla guerra con le armi, che è peggio.

Non ci sono percorsi facili per restituire agli esseri umani, all’attività umana, la dignità che vorremmo abbiano, nel rispetto dell’armonia e dell’equilibrio del mondo; per limitare il potere del denaro, dei ricchi. I giovani saranno costretti dalle cose a riscoprire la politica, come hanno sempre fatto in passato. Certo non ci libereremo degli stranieri, di quelli buoni come di quelli cattivi, chiudendo le frontiere. Siamo figli delle migrazioni e degli scambi, ed anche delle invasioni barbariche, non della mummia dell’Impero romano.

Clicca qui per leggere il rapporto completo.

L’articolo è pubblicato anche su sbilanciamoci.info.