Ogni cittadino italiano è diventato più povero, in media, dell’1% all’anno nei sette anni di governo della destra. Tutti i dati su produzione, investimenti, debito, redditi mettono in evidenza la gravità della situazione macroeconomica e finanziaria, mentre la percezione della realtà da parte del governo appare del tutto evanescente
Nel mondo si susseguono i segnali di una attenuazione della recessione economica; nel secondo trimestre di quest’anno negli Stati Uniti, epicentro della crisi, il Pil è calato dell’1 per cento rispetto al trimestre precedente, un tasso inferiore alle attese e al ritmo del trimestre precedente (-5,5%); nei due principali paesi del vecchio continente, la Francia e la Germania, così come in Grecia e Portogallo, si è registrata una piccola, ma significativa ripresa dell’attività produttiva (+0,3%); in Giappone, paese colpito profondamente dalla crisi per il peso molto elevato dell’industria manifatturiera nella formazione del reddito, il progresso è stato leggermente superiore (+0,9%); in India e Cina, paesi per i quali non si può parlare di crisi perché c’è stata soltanto una decelerazione del ritmo di sviluppo, la crescita del Pil sta nuovamente accelerando.
Nel nostro Paese, anche nel secondo trimestre la produzione si è ridotta dello 0,5 per cento rispetto al trimestre precedente; dei principali paesi europei soltanto la Spagna, segnata dallo scoppio della bolla immobiliare e la Gran Bretagna, colpita nell’industria finanziaria, hanno registrato un ulteriore calo del Pil.
L’andamento tendenziale è, per l’Italia, ancora più negativo: la diminuzione del Pil rispetto al corrispondente trimestre dell’anno precedente si è attestata al 6 per cento, la percentuale più elevata in Europa; secondo il rapporto semestrale ‘Economic outlook’ dell’Ocse pubblicato nel mese di giugno, nel triennio 2008-2010 soltanto l’economia giapponese registrerà una dinamica peggiore di quella del nostro paese.
Al di là del negativo dato congiunturale, l’Italia si differenzia da ogni altro Paese dell’intero planisfero perché la recessione segue un lungo periodo di stagnazione economica. Alcuni dati ne forniscono immediata evidenza:
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il Pil del 2009 è sostanzialmente equivalente a quello di inizio secolo e il reddito medio pro-capite è calato di circa il 5 per cento per l’aumento di oltre 3 mln di persone residenti;
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nello stesso periodo la pressione fiscale complessiva è ulteriormente aumentata e ha raggiunto livelli intollerabili per il ceto medio soggetto a trattenuta alla fonte; l’aumento delle tasse non ha impedito che il debito netto delle amministrazioni pubbliche sia salito di circa 450 mld di euro, il 35 per cento del dato iniziale;
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dall’inizio del decennio, in conseguenza della diminuzione della competitività internazionale del nostro Paese, la bilancia commerciale dei pagamenti e la posizione netta sull’estero sono passate da un consistente attivo (rispettivamente 17,4 mld e 30,7 mld nel 2001) a un rilevante deficit (rispettivamente 53,6 mld e 196,2 mld nel 2008); la quota del nostro Paese nel commercio mondiale si è ridotta al 3,5 per cento.
Nel biennio del governo Prodi (2006-2007) la performance dell’economia italiana, pur non del tutto soddisfacente in assoluto (il Pil è salito solo del 3,8 per cento nei due anni), è risultata nettamente migliore rispetto a quella delle amministrazioni di destra; anche la situazione dei conti pubblici è lievemente migliorata.
Congiungendo, per semplicità espositiva, i sette anni di governo della destra nell’ultimo decennio, si ottiene un calo cumulato del Pil dell’ordine del 3 per cento e del reddito pro-capite di circa il 7 per cento; malgrado il progresso tecnologico, in media, negli anni di governo della destra, ogni cittadino italiano è divenuto più povero rispetto all’anno precedente dell’1 per cento.
Lo stato delle finanze pubbliche, mai risanate nel periodo, è drasticamente peggiorato nell’ultimo anno; nel 2009 l’incidenza del debito pubblico sul prodotto crescerà di oltre 10 punti percentuali. Secondo le ultime stime governative contenute nel documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef) per gli anni 2010-13 l’indebitamento netto del corrente anno dovrebbe essere pari al 5,3 per cento del PIL; si tratta di un dato licenziato nel mese di luglio ma già invecchiato visto che nei primi sei mesi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche è stato di 51,6 mld di euro, il 109 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2008.
Per centrare l’obiettivo del Dpef, il disavanzo del semestre da luglio a dicembre dovrebbe crescere del 20 per cento circa rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente (23,4 mld), un’ipotesi che andrebbe spiegata minuziosamente dal Ministro dell’economia, tenuto conto della caduta del Pil e del gettito tributario nonché delle dichiarazioni di aumento degli investimenti pubblici.
Se la congiuntura rimarrà stazionaria, è verosimile che nel 2009 l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche sarà non inferiore al 6 per cento e, al più, come previsto nello stesso Dpef potrà diminuire negli anni successivi soltanto di qualche decimo di punto; a differenza di quanto previsto dal Governo che stima un picco del 118,2 per cento nel prossimo anno, l’incidenza del debito sul Pil raggiungerà nei prossimi anni livelli mai sperimentati nel nostro Paese, nemmeno quando gran parte del debito pubblico era detenuto da residenti; secondo l’Ocse nel 2010 il rapporto si attesterà al 127 per cento. Malgrado la carenza di misure di stimolo dell’economia, l’aumento dell’incidenza del debito sarà il più elevato fra tutti i paesi europei, salvo l’Irlanda, dove prima della crisi il debito era soltanto il 25 per cento del Pil.
La precarietà della situazione finanziaria dello stato italiano è indirettamente testimoniata dalla politica di gestione della liquidità da parte del Ministro dell’economia che, per evitare tensioni nei pagamenti dello Stato, nel primo semestre dell’anno ha quasi triplicato, a 56,7 miliardi di euro, le riserve tenute sul conto disponibilità presso la Banca d’Italia. A fronte di tale prudente politica, il debito lordo delle amministrazioni pubbliche è salito in soli sei mesi di oltre 89 miliardi di euro, quasi il 6 per cento del Pil.
Malgrado l’esplosione del debito e i residenti all’estero rappresentino quasi la metà degli investitori di titoli del governo italiano, la percezione del ‘rischio Italia’ da parte dei mercati finanziari è fin qui rimasta relativamente contenuta. Nel mese di giugno il differenziale tra il rendimento dei Btp e quello dei Bund tedeschi si è aggirato sui 20 punti base per i titoli biennali, di 110 pb per i decennali e di 125 pb per i trentennali. Utilizzando alcune ipotesi semplificatrici (in particolare che il rischio di insolvenza sia nullo per i titoli tedeschi, che in caso di default la perdita sia pari alla metà del nominale, che la probabilità di insolvenza sia equidistribuita nel periodo e che la volatilità del valore dei titoli in funzione della variazione dei tassi sia equivalente) si può stimare che il rischio implicito dei titoli italiani fosse a giugno nettamente inferiore all’1 per cento per l’orizzonte di due anni ma salisse a circa il 20 per cento a per l’arco temporale decennale; nei primi mesi dell’anno il differenziale Btp/Bund espresse una probabilità di default dei titoli decennali italiani superiore al 25 per cento (per i trentennali la probabilità fu ampiamente superiore al 50%).
La consistente riduzione del differenziale registratosi nella prima metà di agosto sembra attribuibile al superamento del periodo di maggior turbolenza dei mercati finanziari; vi potrebbe aver contribuito una percezione da parte dei mercati di un lieve peggioramento dello stato delle finanze tedesche. La volatilità della percezione del “rischio Italia” da parte degli operatori di mercato rappresenta peraltro un segnale di forte criticità, perché rende ipotizzabile uno scenario di repentino cambio della fiducia sul nostro Paese con conseguente rialzo del rischio di insolvenza. Paradossalmente, la stessa prospettiva di ripresa dell’economia mondiale potrebbe risultare non favorevole per l’Italia in quanto potrebbe divenire più chiaramente visibile la debolezza strutturale della finanza pubblica del nostro Paese.
Sebbene i dati mettano in evidenza la gravità della situazione macroeconomica e finanziaria, la percezione della realtà da parte del nostro Governo appare del tutto evanescente; alcuni recenti interventi lo rendono manifesto:
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il provvedimento di detassazione degli straordinari è stato introdotto in avvio della crisi, quando le imprese iniziavano a manifestare un eccesso di capacità produttiva e non il contrario;
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il provvedimento di copertura degli interessi sui mutui che avessero superato la soglia del 4% è stata preso quando la politica dell’Eurosistema stava diventando eccezionalmente espansiva e i tassi di interesse si riducevano su livelli mai sperimentati in precedenza in Europa;
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la scelta di affidarsi nuovamente all’energia di fissione nucleare pospone di decenni la soluzione della dipendenza energetica ed appare essenzialmente come una decisione ideologica che conviene soltanto all’industria francese che può esportare per molti anni tecnologie di medio livello in un paese arretrato, mentre alle generazioni future è lasciato il problema dello stoccaggio delle scorie radioattive; anche questa volta è stato deciso di non salire sul carro delle tecnologie pulite avanzate, come invece fanno la maggior parte dei paese industrialmente avanzati;
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la vicenda Alitalia ha causato lo sperpero inutile di risorse pubbliche (non meno di 4 miliardi di euro) per la creazione di una piccola compagnia regionale che ha la prevalente funzione di convogliare i passeggeri internazionali sugli aerei Air France in partenza da Parigi;
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viceversa le misure di sostegno al lavoro e al reddito indispensabili in questa drammatica crisi sono del tutto insufficienti.
Il momento sollecita l’abbandono immediato delle passate azioni governative, a partire da quelle maggiormente simboliche, e la ricerca, anche attraverso veri confronti dialettici, di soluzioni condivise per evitare il collasso del nostro Paese; è indispensabile uno sforzo da parte delle parti sociali di abbandonare gli interessi particolaristici e di sostituirli con una visione d’insieme dei problemi nazionali; la Confindustria deve superare le proprie miopi rivendicazioni (“vogliamo soldi veri”) per tornare ad essere un interlocutore capace di rappresentare i propri interessi all’interno di una prospettiva di compatibilità macroeconomiche; la stessa cosa va chiesta ai sindacati dei lavoratori e delle altre categorie economiche con la convinzione che la ripresa dei consumi non può che essere correlata all’aumento dei redditi delle famiglie.
Il funzionamento delle istituzioni è il primo punto da rifondare per costruire una amministrazione pubblica in grado di perseguire il benessere comune. La cosiddetta “seconda repubblica” sarebbe nata con il cambiamento della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria, mentre il funzionamento delle Istituzioni statali, disegnato in armonia con la precedente legge proporzionale, è rimasto invariato. Si tratta di una palese incoerenza che va quanto prima superata. Sul piano dell’analisi comparata, l’attuale legge elettorale, il famoso porcellum, non trova riscontro in nessun altro paese industrializzato; sul piano fattuale tende a svuotare di potere il Parlamento, chiamato unicamente a ratificare le decisioni del governo, rendendo pletorica la sua composizione numerica e in rami, eccessivamente oneroso il funzionamento. In tale situazione l’attività del governo non è soggetta ad alcun controllo istituzionale e il potere del premier trova unico limite nei partiti che partecipano alla coalizione di maggioranza (attualmente tale ruolo è ricoperto dalla sola Lega). In tale contesto istituzionale, le leggi ad personam non possono che diventare la regola e il contributo dei parlamentari alla formazione della volontà collettiva inesistente.
Anche la politica fiscale va rifondata sulla base di obiettivi di equità distributiva e stimolo economico; va accompagnata ad una drastica riqualificazione della spesa, anche quella relativa al costo della politica; essa va ridotta in valore assoluto e ricomposta, per favorire processi di sviluppo compatibili con l’ambiente in grado di valorizzare ricchezze paesaggistiche, artistiche e storiche e per migliorare la qualità dell’offerta dei servizi di istruzione, sanitari, di giustizia, di sicurezza, di controllo amministrativo.
La crisi è un’occasione per modificare i paradigmi statistici del benessere di una nazione che sempre meno possono essere sintetizzati in un indicatore di produzione come il Pil; va ormai consolidato il comune sentire che il progresso tecnico va utilizzato per creare una società funzionale ai bisogni degli uomini; la crescita senza fine dei beni materiali non accresce il benessere, ma la dipendenza; l’aumento della produttività crea crisi da sovrapproduzione e disparità crescenti tra lavoratori e disoccupati se non governata da politiche distributive delle ore lavorate. Va implementata una nuova organizzazione della vita sociale in cui il terzo settore abbia, anche in linea con la dottrina della Chiesa (cfr ultima enciclica del Papa), un ruolo preminente.
L’organizzazione dello stato deve trovare fondamento nei principi dell’illuminismo e nella loro trasposizione concreta nelle leggi e nella pratica amministrativa. L’inconsistenza dell’azione del governo italiano è anche il fallimento di una visione amorale e illiberale dell’utilità degli scambi, secondo la quale è giusto che sia premiata la furbizia di trarre un vantaggio personale indipendentemente dal rispetto delle regole; nella società post industriale la sana regolamentazione dell’informazione secondo principi di verità, correttezza ed equilibrio costituisce il cuore di uno stato democratico fondato sul libero mercato.