Decostruire il mantra di un’”emergenza umanitaria insostenibile”, da cui occorrerebbe difendersi con la militarizzazione delle frontiere, è una delle prime cose da fare per chi crede ancora che sia possibile salvare l’Europa Le certezze sul futuro dell’Unione Europea sono poche né, d’altra parte, il Libro bianco recentemente pubblicato dalla Commissione Europea e le indiscrezioni sui […]
Decostruire il mantra di un’”emergenza umanitaria insostenibile”, da cui occorrerebbe difendersi con la militarizzazione delle frontiere, è una delle prime cose da fare per chi crede ancora che sia possibile salvare l’Europa
Le certezze sul futuro dell’Unione Europea sono poche né, d’altra parte, il Libro bianco recentemente pubblicato dalla Commissione Europea e le indiscrezioni sui contenuti della Dichiarazione di Roma che i capi di Stato e di Governo saranno chiamati a sottoscrivere il 25 marzo, offrono indicazioni particolarmente illuminanti.
Qualcosa di certo però c’è. E sarebbe meglio che non ci fosse.
Ammesso che le elezioni presidenziali francesi non provochino un’accelerazione del processo di disintegrazione dell’Unione, qualunque sia la mediazione politica che prevarrà alla fine del 60° anno dalla firma dei Trattati di Roma, avrà come priorità il rafforzamento della collaborazione nel settore della difesa (nell’ambito della ricerca, delle politiche industriali e della gestione comune degli appalti), della sicurezza interna (attraverso un maggiore coordinamento tra le polizie nazionali) e del controllo delle frontiere esterne finalizzato a contenere gli arrivi dei migranti (siano essi “economici” o richiedenti asilo) grazie al funzionamento di una Guardia di frontiera e costiera europea, allo sviluppo dei programmi di rimpatrio dei migranti “irregolari” e di una cooperazione mirata e selettiva con i paesi terzi.
La lettura del Libro bianco sul futuro dell’Europa non lascia dubbi: tutti gli “scenari” ipotizzati “per l’evoluzione dell’Europa da qui al 2025”, tranne il secondo che prevede solo il mantenimento di un mercato unico, immaginano un’Unione Europea più militarizzata e protetta da frontiere esterne, sempre più difficili da valicare.[1]
Il testo della Dichiarazione di Roma, ancora in fase di revisione, non opterà esplicitamente per nessuno dei percorsi delineati dalla Commissione, ma sicurezza e governo delle politiche migratorie costituiscono uno dei quattro pilastri del documento citati dal Presidente del Consiglio Gentiloni a Bruxelles.
La soluzione di governance che sembra profilarsi, per ottenere la firma anche dei recalcitranti paesi del Gruppo di Visengrad, è quella che rinuncia all’assunzione esplicita della proposta tedesca di “Europa a due velocità”, senza escludere ipotesi di collaborazione differenziata nei diversi ambiti di intervento. «Agiremo insieme ogniqualvolta sarà possibile, a differenti ritmi e intensità dove necessario, come abbiamo fatto in passato entro la cornice dei Trattati e lasciando la porta aperta a coloro che vorranno aggiungersi dopo. La nostra Unione è indivisa e indivisibile». Questa la formula che consentirebbe di raggiungere l’accordo sul testo, secondo alcune indiscrezioni riportate dalla stampa.[2]
Migrazioni e asilo: il rifiuto come minimo comun denominatore
Proprio il governo delle migrazioni e la circolazione delle persone all’interno dell’Unione rappresentano uno dei principali punti di crisi del processo di integrazione europeo. Vi sono almeno tre distinte prospettive e strategie politiche che al momento dividono l’Europa.
La prima è quella dei paesi del Nord, che si trovano in una migliore situazione economica, sono dotati di sistemi di welfare e di accoglienza mediamente più efficienti, da molti anni hanno cercato di fermare le migrazioni per motivi economici da paesi terzi, ma hanno lasciato aperte le porte ai richiedenti asilo, almeno sino alla crisi umanitaria connessa alla degenerazione della situazione siriana. La parentesi, chiusa velocemente, della sospensione unilaterale del Regolamento di Dublino da parte tedesca nel 2015, si colloca nel quadro di una strategia che individua come priorità il blocco delle migrazioni provenienti da paesi terzi, ma anche una limitazione della libera circolazione all’interno dell’Unione. I risultati del referendum sulla Brexit sono infatti stati accompagnati da iniziative, ad esempio in Germania, finalizzate a limitare l’accesso al sistema di welfare dei cittadini comunitari di altri paesi membri.
I paesi collocati alle frontiere meridionali esterne, più direttamente esposti ai flussi migratori provenienti dal Sud del Mediterraneo, ma anche dotati di sistemi meno efficienti di welfare e di accoglienza, sono maggiormente interessati a una cooperazione “solidale” con gli altri paesi membri, alla condivisione “dell’onere dell’accoglienza” e ai programmi di ricollocamento previsti dall’Agenda Europea della Migrazione, rimasti in gran parte inattuati. Gli stessi paesi sono anche quelli che continuano ad “esportare” i propri cittadini più qualificati nei paesi del Nord Europa e sono interessati a mantenere la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione.
Infine i paesi dell’Est Europeo, direttamente coinvolti nella crisi seguita all’apertura della Rotta Balcanica, hanno chiuso le loro porte alle migrazioni esterne, erigendo muri e fili spinati lungo le proprie frontiere, ma, essendo ancora paesi di emigrazione verso l’Europa centrale e Occidentale, sono interessati a mantenere la libera circolazione interna delle persone.
Situazioni economiche e sociali diverse e modelli di welfare e sistemi di accoglienza molto differenziati gli uni dagli altri concorrono nel facilitare l’incontro di queste tre diverse prospettive unicamente sulle politiche del rifiuto: rafforzamento del controllo delle frontiere terrestri e marittime, procedure di asilo sempre più restrittive, detenzione dei migranti privi di titolo di soggiorno, rimpatri forzosi accelerati nei paesi di origine, cooperazione internazionale rafforzata piegata all’obiettivo del blocco delle migrazioni. E’ in questa direzione che si stanno muovendo le istituzioni comunitarie e quelle nazionali.
La miopia della Fortezza Europa tra vecchi e nuovi nazionalismi
“I vari cambiamenti che avvengono nel mondo e l’autentico senso di insicurezza avvertito da molti hanno portato a una crescente disaffezione nei confronti della politica tradizionale e delle istituzioni a tutti i livelli, che si manifesta spesso sotto forma di indifferenza e sfiducia nei confronti dell’operato delle autorità pubbliche e crea anche un vuoto che viene colmato con troppa facilità da retoriche populiste e nazionalistiche.”[3]
Questa la lettura della crescita di consenso che i partiti e i movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi stanno riscuotendo in molti paesi europei, proposta dalla Commissione, senza alcun cenno autocritico rispetto alle politiche comunitarie adottate sino ad oggi.
Scritta nero su bianco, vi è l’ottusa rassegnazione all’egemonia del dibattito politico e istituzionale sulle sorti dell’Europa da parte delle destre. Già da tempo, ma in modo accentuato a partire dalla campagna per le elezioni europee del 2014 e dopo l’ingresso di Trump sulla scena politica, euroscetticismo, nazionalismo, xenofobia e razzismo si sono intrecciati, fuoriuscendo ampiamente dalla sfera tradizionale di influenza dei movimenti di destra.
Ciò è stato possibile grazie all’agitazione strumentale e retorica di argomenti che possono trovare un facile consenso nell’opinione pubblica. L’evocazione della crisi e del declino dell’Europa fa agevolmente leva sul disagio economico e sociale di fasce ampie della popolazione europea. La denuncia di una diffusa “percezione di insicurezza” trae alimento dal disorientamento provocato dalla ripresa degli attentati di matrice jihadista in Europa. La xenofobia e il razzismo possono cavalcare l’incapacità delle istituzioni nazionali ed europee di gestire in modo non emergenziale la crescita degli arrivi di richiedenti asilo, agitando il tema dell’insostenibilità delle migrazioni per i sistemi di welfare e del lavoro nazionali. Xenofobia e razzismo consentono in realtà di combinare il tema della crisi e quello dell’insicurezza e di produrre un capro espiatorio ideale: il migrante estraneo, potenziale nemico (“criminale/terrorista”), in competizione con i cittadini europei nel mercato del lavoro e nel welfare.
Ciò può accadere grazie ad una grande rimozione operata tanto da chi ci governa a livello comunitario e nazionale, quanto dai movimenti xenofobi-razzisti: quella del fallimento delle politiche economiche e sociali portate avanti sino ad oggi e di quelle migratorie e sull’asilo.
Non sono le donne e gli uomini in arrivo la causa della crisi dell’Europa, semmai ne sono le vittime più indifese. E l’approccio sicuritario viene da molto lontano, ha attraversato l’intera storia del processo di integrazione europeo e ha già dimostrato ampiamente di avere fallito.
Decostruire il mantra di un’”emergenza umanitaria insostenibile”, da cui occorrerebbe difendersi con la militarizzazione delle frontiere, la moltiplicazione di centri di detenzione in ogni dove e missioni “umanitarie” contro i trafficanti, è una delle prime cose da fare per chi crede ancora che sia possibile salvare l’Europa. E l’argomento chiave non può essere che quello dell’eguaglianza.
[1] Si veda: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf
[2] Si veda: http://www.lastampa.it/2017/03/17/esteri/prima-marcia-indietro-sullue-a-due-velocit-inaccettabile-uneuropa-di-serie-a-e-una-di-b-gyqCAtH8dWlqoNakGdXlQI/pagina.html
[3] Libro bianco della Commissione Europea cit. pag. 12