Nella prima parte dell’articolo sono state indicate le conseguenze culturali e sociali della marginalizzazione di Keynes e delle sue intuizioni. Qui si mostra la liberalizzazione a tutti i costi che ne è scaturita e i suoi prevedibili, drammatici sbocchi.
La svolta culturale monetarista e favorevole al mercato “a tutti i costi” che si determinò dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso si trovò a operare su questo sostrato complesso. Gli effetti, allora, incisero soprattutto nei confronti dei paesi più deboli, dei paria della terra, senza grandi preoccupazioni per i paesi più sviluppati, anzi spesso con vantaggi per i più forti di essi.
Oggi, quando analoghe prescrizioni sono impartite ai più deboli dei paesi avanzati ma esistono pericoli di contagio anche per i più forti, i nodi stanno venendo al pettine. Strano, ma tutti si preoccupano e nessuno interviene a “fare le bucce” a teorie, prassi, responsabilità e limiti culturali che stanno dietro a questo stato di cose; uno stato di cose che, invece, concreta quei pericoli di sfaldamento della cooperazione, di conflitto, di peggioramento del benessere che i padri degli accordi di Bretton Woods – da Roosevelt a Churchill, da Cordell Hull a White a Keynes – intendevano prevenire.
Vi ho fatto assistere, sia pure per brevi e superficiali cenni, alla nascita di Epimeteo.
Ora disveliamone il volto, elencando le tipologie d’interventi “strutturali” prescritti: restrizioni di bilancio (di recente divenute ritorno al pareggio), liberalizzazione degli scambi attraverso l’eliminazione di contingentamenti e dazi, eliminazione di controlli sui prezzi e di sussidi, nonché condizioni rivolte a favorire gli investimenti diretti stranieri e a creare mercati finanziari nei paesi cui è erogato il prestito, privatizzazioni di aziende pubbliche e libertà di iniziativa nello sfruttamento delle risorse naturali (tanto per intenderci, la privatizzazione delle acque in Bolivia faceva parte dei SAPs), ecc..
Mancava per lo più l’indicazione di riforme del mercato del lavoro, che invece era una chicca riservata alla Commissione Europea (ma se ne comprendono i motivi, visti i salari di sussistenza di buona parte dei paesi destinatari). A fronte di queste connotazioni, tutte restrittive, l’aggiunta relativamente recente di programmi specifici contro la povertà, tutta da valutare al di là degli interventi umanitari, appare poco più che un abbellimento.
Il tipo di cultura emerso dal processo descritto per sommi capi è assertivo, meccanico, privo di articolazioni e di rispetto delle differenze, incapace comunque di vedere la radicale diversità che esiste tra debiti pubblici e debiti privati. Esso non sembra al momento avere alternative. Il rischio greco non è visto come possibile incapacità di pagare interessi ai creditori esteri, bensì come incapacità di “restituire” il debito, come se i debiti pubblici del passato, mai restituiti bensì sempre e solo rinnovati, avessero fatto indefettibilmente fallire le nazioni.
Eppure su tale diversità esiste una letteratura economica immensa, sufficientemente prestigiosa da portare a dubitare anche il liberale più incallito, purché di buon senso. Ma tant’è! Ormai gli occhi sono talmente assuefatti a vedere le cose con occhiali privatistici da non sollevare mai dubbi, da non esercitare alcun principio di cautela, come si fa per i rischi ambientali. E, siccome non esistono limiti alla miopia di quegli occhi, si finisce per agire facendo rincarare per i paesi in difficoltà gli interessi da pagare sul rinnovo del debito, mentre il livello di austerità fiscale imposto dalle varie tecnocrazie in missione lascia intravvedere ben poche possibilità di ripresa dell’economia reale. In un recente libro di Petros Markaris (Prestiti scaduti, Bompiani), ambientato nella Grecia della crisi, un personaggio fa notare al protagonista, commissario Charitos, che l’usuraio intelligente non uccide le vittime, finché qualcosa pagano. C’è perfino da dubitare che i funzionari che dettano le riforme strutturali sappiano davvero cosa realmente sia un “mercato”.
L’enfasi politica va quindi posta sulla costruzione di un atteggiamento culturale condiviso, a livello europeo, che sappia rovesciare queste inerzie culturali a partire da adeguate analisi teoriche. Possibile? Probabile? I segni sono davvero contraddittori.
Al di là delle tante parole, la sfera politica (ovunque) non ha osato aprire una riflessione sulle responsabilità delle Banche centrali nell’indurre la crisi (eppure, nel timore di un tale “processo”, quelle autorità hanno assunto una posizione defilata per un paio d’anni; dopo di che sono tornate a “prescrivere” con rinnovata intensità). Succubi della cultura qui descritta non sono in Europa solo gli schieramenti conservatori e i ceti agiati. Lo sono i partiti di sinistra; lo sono in buona parte i sindacati. Non vi è dubbio che i danni evidenti che si stanno inducendo siano in qualche misura buoni alleati di una possibile reazione. Pochi avrebbero pensato fino a poco tempo fa che un atteggiamento favorevole alla Tobin Tax (che personalmente non ritengo in alcun modo risolutiva) potesse aversi al livello del Parlamento europeo; ma Commissione e governi vari si oppongono. È vero che personaggi importanti, dalla Merkel a Barroso, hanno cominciato a trattare male le agenzie di rating, ma non vanno oltre a dire che “vanno riformate” o che “bisogna costituire un’agenzia europea”; ma che senso ha “riformare” soggetti privati cui altri soggetti privati credono (e che probabilmente usano), senza neanche provare a riflettere su come si costruiscono e si contrastano in questo campo i meccanismi di reputazione? E che senso avrebbe creare un’agenzia di rating europea? Non bastano Commissione e Bce? Si parla di Eurobonds, e ciò potrebbe far sperare in qualche novità. Ma si parla poco o niente della possibilità di gestire un bilancio europeo in disavanzo direttamente monetizzato dalla Bce per finanziare interventi ben organizzati in campo reale e orientati allo sviluppo. Sul piano teorico induce certo speranze il fatto che la World Economic Association (Wea), portatrice di nuove idee e nuovi metodi e di cui questa rivista ha dato notizia recentemente, abbia raggiunto rapidamente le 5.000 adesioni; ma il problema e le virtù risolutive non vanno cercate nella sfera degli economisti ma in quella delle forze politiche.
Si sta giocando una guerra contro il tempo, contro le differenze culturali e politiche tra paesi, contro gli egoismi nazionali. Dalla rapidità con la quale la politica reagirà, con la quale noi saremo capaci di farla reagire, dipenderà se il “goodbye Prometeo” potrà intendersi come “addio” o come “arrivederci”.