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Il coraggio e la speranza del Def

La crescita del deficit per il 2020 passa dall’1,4% tendenziale al 2,2% programmatico, e pone non pochi problemi politici con la Commissione europea. Ma basterebbe che Bruxelles valutasse con un modello meno deflazionistico il Pil potenziale (output gap) – come l’Ocse – per ridare fiato all’Italia.

La presentazione del NADEF (primo ottobre) è stata accolta con accenti diversi e opinioni contrastanti; rimane qualcosa di amaro e, probabilmente, inevitabile dopo la lettura del documento. Il governo si è insediato da poco e sarebbe stato difficile costruire una manovra più solida. Trenta miliardi sono il minimo sindacale, giustappunto fare quello che non si poteva evitare: clausole di salvaguardia, riduzione del costo del lavoro e la sempre verde lotta all’evasione fiscale. 

Sono tutte misure da valutare nel tempo. La crescita del deficit per il 2020 passa dall’1,4% tendenziale al 2,2% programmatico (14,1 mld di euro), e pone non pochi problemi politici con la Commissione europea. In particolare sarà scontato il disagio della Commissione se consideriamo il deficit strutturale, l’indicatore monitorato dal Fiscal Compact. Secondo le indicazioni europee, infatti, questo dovrebbe tendere al pareggio nel medio periodo, ma nel NADEF questo indicatore passa da meno 0,5% del tendenziale a meno 1,4% programmatico del 2020.  Ciò è l’esito dell’impossibilità politica e tecnica di intervenire organicamente sulle clausole di salvaguardia, così come per delineare delle misure coerenti con gli obbiettivi di governo. La predisposizione di 22 disegni di legge collegati alla manovra di bilancio per il 2020, in fondo, sono lo specchio fedele della parzialità della manovra economica. I tempi erano troppo stretti per fare qualcosa di più puntuale, ancorché 22 DDL collegati alla Legge di Bilancio sono, invero, troppi e troppo ampi: si passa dal Green New Deal, alla riforma catastale, al riordino e semplificazione fiscale. Non tutti i DDL sembrano coerenti con la Legge di Bilancio, e appaiano come la cornice di politica economica a cui il Parlamento dovrà attenersi per realizzare il programma di governo. È facile immaginare che alcuni di questi DDL saranno considerati estranei alla manovra, ma l’iniziativa parlamentare sarà condizionata (prigioniera?) di questi provvedimenti legislativi.

Gli stimoli alla crescita (0,6% per il 2020) sono contenuti e, alla fine, interamente attribuibili alla parziale neutralizzazione delle clausole di salvaguardia (23 mld), lasciando spazi marginali per il cosiddetto cuneo fiscale e Industria 4.0. Inoltre questi provvedimenti non risolvono i nodi di struttura del Paese. Sebbene il saldo tra gli incrementi delle importazioni e delle esportazioni sia positivo per il 2020, questo diventa negativo negli anni successivi (2021 e 2022), come se i parziali e marginali aumenti di consumi e investimenti, in particolare dei macchinari, fossero soddisfatti dalle importazioni. Industria 4.0, in effetti, ha sostenuto i beni strumentali tedeschi, configurando un saldo commerciale negativo dell’Italia sulla Germania.

La manovra economica delineata per il 2020 computa 23 mld di clausole, 2,7 mld da cuneo fiscale, 3,6 mld da spese indifferibili e Industria 4.0, per un totale di 29,4 mld di euro. La copertura finanziarie per le misure predisposte dal governo computano 14 mld da maggiore deficit, 7 mld da maggiori entrate dalla lotta alla evasione fiscale, 1,8 mld dalla spending review, a cui dovrebbero aggiungersi  altri 1,8 mld per minori sussidi a favore dell’ambiente e 1,7 mld di risparmi relativi al servizio del debito, per un ammontare complessivo di 28,4 mld.  

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Indagando l’impatto macroeconomico delle misure considerate dal governo, si osserva come e quanto siano modeste. Ciò pone dei problemi di valutazione circa l’efficacia delle proposte governative. Tutta la crescita aggiuntiva (0,3%) è attribuita alla parziale neutralizzazione delle clausole, mentre la crescita legata alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro e Industria 4.0 (3,9 mld) è più che compensata dalle maggiori entrate e dalla minore spesa pubblica. Inoltre, sul medio periodo, gli interventi considerati dal governo delineano una contrazione del contributo alla crescita del PIL per tutte le misure considerate, financo quella legata alle clausole di salvaguardia per il 2022. 

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Più volte è stato ricordato come e quanto pesi il giudizio della Commissione europea. Al momento non ci sono comunicazioni ufficiali, ma la misurazione dell’output gap (PIL potenziale) è fondamentale per valutare il deficit strutturale. Il NADEF illustra efficacemente come l’output gap cambi in misura considerevole tra i diversi organismi internazionali. La NADEF (p.57) mette a confronto l’output gap stimato dalle diverse istituzioni (Commissione europea, Ocse, ministero dell’economia, Fondo monetario internazionale). Come si può osservare dal grafico di cui sotto, il modello econometrico della Commissione europea non solo è il più stringente, ma tende a far coincidere output gap e PIL reale, mentre il modello dell’OCSE e del MEF registrano un output gap significativamente più alto. Se il governo intende misurarsi con l’Europa rispetto alle regole europee, si potrebbe partire dalla metrica utilizzata dalla Commissione che è la più deflazionistica tra tutte quelle utilizzate. Basterebbe una modifica di questa metrica per offrire un orizzonte migliore all’Italia e, in definitiva, per tutta l’Europa.

Stime output gap per Italia dei diversi istituti internazionali (p. 57, NADEF)

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