Dis-integrati/Intervista a Kees van der Pijl: «Siamo passati da una forma di capitalismo ancora interessato ai processi di accumulazione reali ad uno puramente speculativo»
Il conflitto ucraino non è solo il frutto di una crescente tensione tra Occidente e Russia. Esso riflette anche una crescente tensione interna all’Occidente, tra Stati Uniti e «vecchia Europa», in cui il tentativo dei primi di mantenere il continente saldamente assoggettato alla propria strategia economico-militare (un esempio su tutti: il fatto che l’adesione delle ex repubbliche sovietiche all’Ue è di fatto condizionale all’adesione alla Nato) si scontra con un’influenza economica e militare in declino e con la crescente ambizione di paesi come Francia e Germania di esercitare una maggiore autonomia in politica estera (ma non solo). Questo scontro, a sua volta, è l’espressione di una politica che, su entrambe le sponde dell’Atlantico, è sempre più asservita agli interessi del grande capitale, il quale ha bisogno di uno stato di «conflitto e destabilizzazione permanente» per portare a termine i suoi obiettivi: l’accaparramento di risorse e materie prime sempre più rare (all’estero) e il saccheggio della cosa pubblica (in casa). Di questo e altro abbiamo parlato con Kees Van Der Pijl, professore di relazioni internazionali all’Università del Sussex.
Professore, lei sostiene che stiamo attraversando una fase inedita del capitalismo. Quali sono le sue caratteristiche principali? Nel corso degli anni novanta abbiamo assistito a una serie di mutazioni molto profonde. In ambito economico siamo passati da una forma di capitalismo interessato ancora ai processi di accumulazione reali ad un capitalismo puramente speculativo ed estremamente finanziarizzato che si nutre di enormi bolle destinate inevitabilmente a scoppiare. Uno dei principali fautori di questa forma di capitalismo speculativo è stato Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve tra il 1987 e il 2006, che difatti nel corso degli anni novanta ha inaugurato quella politica di «welfare per i ricchi» a cui abbiamo assistito in seguito alla crisi del 2007-8, in cui lo stato, per mezzo di enormi iniezioni di denaro pubblico, si fa carico di tenere in piedi e di «rimpolpare» il sistema finanziario in seguito allo scoppio di ogni bolla. Uno dei problemi del capitalismo speculativo è che tende ad arricchire solo una piccolissima percentuale della popolazione: allo scoppio di ogni bolla le classi medio-basse si impoveriscono sempre di più, mentre gli ultra-ricchi diventano sempre più ricchi. In questo senso è una forma di capitalismo che tende inevitabilmente all’oligarchia. L’altro aspetto della mutazione che è avvenuta ha riguardato invece la sfera geopolitica: il crollo dell’Unione Sovietica ha trasformato gli Usa nell’unica superpotenza al mondo, facendo venire meno la «stabilità» offerta dai due blocchi e inaugurando un’era di «conflitto permanente» che a sua volta beneficia unicamente l’oligarchia del complesso militare-industriale, o quello che potremmo chiamare «il partito della guerra». E ora, di fronte alla crescente incapacità degli Stati Uniti da agire da super-stato ombrello come in passato (anche in Europa), i focolai di conflitto si stanno moltiplicando.
Lei sostiene che in questa fase è il ruolo stesso dello stato, nell’accezione liberal-democratica del termine, a venire meno e a “disintegrarsi” . Assolutamente. Storicamente nelle democrazie occidentali il ruolo dello stato è sempre stato quello di mediare, di trovare una coerenza tra i vari interessi economici, di classe, ecc. che attraversano la società. In un contesto sempre più oligarchico come quello in cui ci troviamo oggi, però, in cui una piccolissima minoranza detiene un potere economico spropositato, lo stato non è più in grado di mediare tra le varie «fazioni» e finisce per diventare asservita unicamente agli interessi nudi e crudi della classe dominante, che non è più obbligata a trovare un compromesso all’interno dell’arena politica. In sostanza, lo stato perde la sua coerenza e comincia a «disintegrarsi». Questo è senz’altro vero negli Usa, come dimostra l’incoerenza di Obama in politica estera. Ma è un discorso che vale anche per l’Europa, dove è sempre meno chiaro quali siano le funzioni esercitate a livello europeo e quali quelle esercitate a livello nazionale. Questo è un classico esempio di incoerenza, di cui le élite possono facilmente approfittarsi per imporre la propria visione senza dover passare per il processo democratico. Nel medio termine una politica di questo tipo ha un effetto estremamente destabilizzante per i processi democratici, e nel caso specifico dell’Europa sta portando a una serie di spinte centrifughe (Scozia, Catalogna, ecc.) che rischiano seriamente di far implodere il processo di integrazione europeo.
Lei traccia una legame tra i processi di disgregazione europea in corso e l’involuzione autoritaria dell’Ue, a sua volta – sostiene – una conseguenza inevitabile del modello di capitalismo predatorio dominante. Sì, il caso europeo è particolarmente preoccupante, perché assistiamo a un’involuzione autoritaria non solo a livello nazionale – poiché le élite politiche non sono più in grado di mediare tra gli interessi delle varie classi, come dicevo prima – ma anche a livello sovranazionale, in cui l’Ue è sempre più incapace di mediare tra gli interessi dei vari stati e si fa garante unicamente degli interessi degli stati dominanti e del grande capitale finanziario, assumendo dei tratti sempre più autoritari. Molto si è parlato, infatti, dell’apparato di sorveglianza estremamente pervasivo, facente capo all’Nsa statunitense, portato alla luce da Snowden. Ma la realtà è che tutti governi europei erano – e continuano senz’altro ad essere – complici del programma di sorveglianza americano. A questo poi bisogna aggiungere la crescente incapacità degli Stati Uniti di agire da “collante” e da stabilizzatore politico nel continente. Questo sta determinando una situazione in cui i cittadini si sentono sempre meno rappresentati dalle élite politiche nazionale, ma soprattutto dall’establishment politico europeo. L’acuirsi delle tendenze nazionaliste, regionaliste ed anti-europee e l’ascesa di movimenti populisti e neofascisti in tutta Europa si può in buona parte imputare a questa dinamica.
Che ruolo ha giocato la crisi economica e finanziaria in questo processo in Europa? La crisi del 2007-8 ha drammaticamente accelerato queste tendenze già in corso. Mascherandosi dietro al mantra delle riforme strutturali, del consolidamento fiscale, ecc., le autorità politiche europee hanno di fatto implementato una serie di politiche finalizzate unicamente a perpetuare e a rafforzare l’attuale modello di capitalismo predatorio, che sta determinando un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto senza precedenti. Come dicevo prima, è un capitalismo che non punta più a rilanciare il processo di accumulazione. Il tasso di investimento è ai minimi storici. L’infrastruttura energetica di molti paesi europei è vicina al collasso. L’obbiettivo non è rimettere soldi nel sistema ma sottrarli ad esso, per esempio saccheggiando le infrastrutture pubbliche esistenti attraverso i processi di privatizzazione.
Questa forma estrema di capitalismo predatorio non rischia di mettere a rischio la tenuta stessa del sistema? Il processo di concentrazione di ricchezza in corso determinerà tensioni sociali e politiche che il sistema politico farà sempre più fatica a gestire. La risposta iniziale sarà un’involuzione autoritaria e repressiva sempre più forte, un fenomeno a cui stiamo assistendo anche in Europa. Ma prima o poi il sistema – e con esso il processo di integrazione europea – è destinato a implodere. Questo potrebbe avvenire per cause endogene – l’elezione di un partito anti-europeo in un grande paese europeo (la Francia è il candidato più ovvio in questo momento), il moltiplicarsi delle spinte centrifughe, ecc. – o per cause esogene, come per esempio un’altra grande crisi finanziaria, che considero inevitabile. Nel breve termine questo darà luogo a una situazione di grande instabilità. Ma nel medio termine credo che assisteremo a una profonda riforma del capitalismo, in cui le autorità politiche si vedranno costrette a riprendere in mano le redini dell’economia per frenare gli eccessi dei mercati. Di fatto assisteremo a una ripubblicizzazione e ri-democratizzazione dell’economia. E forse alla ripresa del processo di integrazione europeo su basi radicalmente diverse.