Il “ben-essere” riguarda anche le esigenze di rapporti interumani che attengono alla realizzazione personale, scrive Aldo Carra nel suo ultimo volume (Ediesse edizioni)
Il rapporto tra opportunità di vita e qualità della stessa, riflesso di quello tra opportunità di lavoro e qualità dello stesso, si presenta contraddittorio fin dagli anni settanta quando, come ricostruisce Stefano Fassina nella prefazione al libro di Aldo Carra (Aldo Eduardo Carra, Più uguaglianza, più benessere. Percorsi possibili in tempi di crisi, Roma: Ediesse, 2014, p. 156, € 12; prefazione di Stefano Fassina), sono emersi i limiti di uno sviluppo che, pur in presenza di una forte crescita produttiva, si dimostra incapace a rispondere positivamente alla domanda di maggiore qualità del lavoro e di estensione del welfare.
Il “ben-essere” (well-being) al quale fa riferimento Carra non riguarda la soddisfazione dei soli bisogni personali attraverso lo scambio di mercato, e il ricorso ai servizi pubblici, ma anche di quelle esigenze di rapporti interumani che attengono alla realizzazione personale e sociale degli individui. È un concetto dell’analisi economica elaborato in contrapposizione critica al Pil quale misura dei risultati economici di una nazione; esso ha una propria dignità scientifica, anche se per il pensiero mainstream rimane una curiosità intellettuale di scarso interesse e quindi marginalizzato nei dibattiti e nella gestione della politica economica. Il libro è di diverso avviso; nell’assunto che il Pil non costituisce la “vera” misura del benessere, auspica invece una riqualificazione dell’azione pubblica che abbia un riferimento diretto alle molteplici dimensione del ben-essere.
Una risposta progressiva alla richiesta di well-being incontra però un limite nel modello produttivo esistente data la subordinazione che impone al lavoro e le disuguaglianze che esso genera nella società; questi sono gli aspetti nei quali Carra inquadra la sua proposta di intervento. Sulla capacità del modello capitalistico di società di soddisfare le esigenze di benessere è consueto richiamare il Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti per aver visto giusto nel prevedere l’enorme crescita della produttività che si sarebbe realizzata nel secolo successivo, ma anche per non aver visto giusto nel ritenere che, dopo aver garantito l’appagamento pieno dei bisogni primari ci sarebbe stato un ampio spazio per soddisfare le necessità di più alto livello, le “arti della vita” nella sua espressione. Le cose non sono andate così e non casualmente; il sistema capitalistico per mantenere il suo ritmo di crescita, essenziale per non mettere in discussione il suo assetto sociale, ha accompagnato l’intenso progresso tecnologico con un’altrettanto intensa crescita del consumo inducendo i bisogni necessari per l’assorbimento dei “suoi” prodotti in un circuito “infernale tra sviluppo che genera bisogni e ricerca di soddisfazione dei bisogni che genera sviluppo”. I beni che soddisfano questi bisogni sono quelli maggiormente rappresentati dal Pil e, dato che la crescita di quest’ultimo orienta la politica economica, non sorprende che lo sviluppo del benessere risulti sottodimensionato.
Avere un’occupazione di mercato (soprattutto se adeguata alle competenze acquisite e sufficientemente remunerata) è un fattore importante, ma non sufficiente, per la realizzazione delle persone; il loro benessere può ugualmente soffrire se le esigenze produttive impongono condizioni squilibrate di sovraoccupazione che costringono a una “rincorsa permanente” a maggiori consumi per soddisfare il minor tempo libero o di sottoccupazione che deprimono la qualità della vita. In entrambi i casi, sono penalizzate le attività relazionali e di cura che metterebbero in discussione “i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro”. Per riequilibrare una situazione in cui il lavoro perde valore sia dal punto di vista economico (il progresso tecnologico espropria gran parte delle capacità esecutive), sia dal punto di vista sociale (il ridursi a strumento produttivo), l’obiettivo strategico è la riduzione generalizzata degli orari e la redistribuzione del lavoro nell’ottica “di lavorare meno per vivere meglio”, in linea con quanto sostengono da tempo studiosi attenti alle condizioni dei lavoratori (si vedano le citazioni ai lavori di Carniti e di Trentin). Appare ancora attuale la soluzione, avanzata a suo tempo da Marcenaro e ripresa da Stefano Fassina nella prefazione, di misure di redistribuzione del tempo di lavoro capaci di tener conto dell’esistenza “«di disponibilità differenziata verso il lavoro e dei diversi bisogni di reddito» in una prospettiva capace di comprendere «l’organizzazione dell’insieme delle scelte di vita di una persona»”. Una prospettiva che, intrecciata con quel reddito minimo garantito auspicato dall’Unione Europea, darebbe sostanza a un progetto di “lavoro di cittadinanza attiva”.
Una realtà di “minori occupati che lavorano di più” genera la sistematica disuguaglianza tra i soggetti. In effetti, come è reso esplicito dalla scelta del titolo (Più uguaglianza, più benessere), non è possibile parlare di benessere, in senso individuale e collettivo, se non vi è l’opportunità per tutti di soddisfare le proprie necessità, di modificare la realtà in maniera di aver lo spazio per scegliersi la propria vita; affinché “il futuro di ogni bambino [non sia] determinato dal contesto sociale, dal luogo in cui è nato, dalla posizione occupata dai genitori [piuttosto che] dal suo cervello, dal suo impegno, dal suo talento, dal suo sforzo”. Carra parla giustamente, a questo proposito, di “grande inganno” perpetrato da quegli economisti che teorizzano che la disuguaglianza faccia bene, che giustificano il reale come se fosse razionale. Le remunerazioni di mercato sono sistematicamente ineguali perché remunerano risorse personali notoriamente distribuite in maniera ineguale; risultato che non viene intaccato sostenendo che privilegiare l’utilizzo dei pochi che dispongono di maggiori risorse fa “sgocciolare” reddito e opportunità su coloro che non ne sono dotati: l’esclusione dei molti non è giustificata, anche se auspicata per la maggiore “efficienza” del sistema, solo perché i costi sociali e personali dell’esclusione (riflessa nella disoccupazione e nella precarizzazione delle opportunità di lavoro) non sono considerati costi economici contenuti nel Pil. L’accettazione di una “predicazione della disuguaglianza come valore positivo”, diventando senso comune, è la ratifica della vittoria culturale dell’individualismo, consumismo, liberismo.
Sono considerazioni che indicano come la classe dirigente riesca non solo a imporre regole funzionali ai suoi interessi, ma anche a convincere che i rapporti da lei creati rispondono alle esigenze stesse dei loro subordinati. L’egemonia culturale del sistema produttivo sul sistema sociale spiega l’indebolimento del rapporto tra politica e cittadini, nonché la difficoltà dei processi democratici di contrastare una tale prospettiva di potere. L’uscita da questa trappola è possibile sono riproponendo in alternativa una politica che abbia nel lavoro il segno tangibile dell’uguaglianza e della libertà. Da questa tensione etico-religiosa – i riferimenti a papa Francesco e al pensiero cattolico e socialista sono frequenti – si sviluppa la proposta “minimalista” di Carra, come lui stesso la definisce, per “convincerci e convincere” che una maggiore uguaglianza è oggi possibile e necessaria e che per raggiungerla non vi è bisogno di obiettivi radicali di rivolgimento, ma percorsi che, con i necessari interventi distributivi e redistributivi, affrontino la lotta alla disuguaglianza “a partire da tutti gli aspetti della vita quotidiana delle persone”.
La ricerca di Carra si appoggia sulle analisi, e sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (riportati in apposita Appendice al libro), elaborate dalla Commissione Istat-CNEL alla quale ha partecipato come membro. Sulla base dell’architettura del BES articolata in dodici “domini”, egli individua gli obiettivi che possono costituire la guida per contrastare in maniera puntuale le molteplici situazioni di disuguaglianze che si verificano nei microcontesti sociali, familiari e culturali della vita quotidiana. I settori del Lavoro, del Benessere economico, della Salute e dell’Istruzione sono quelli nei quali più forte è l’incidenza delle disuguaglianze e sono quindi i campi sui quali si concentra maggiormente la sua attenzione e la sua proposta. Più sintetiche, ma non meno significative, sono le considerazioni sulle altre dimensioni (Ricerca ed innovazione, Qualità dei servizi, Relazioni sociali, Partecipazione e fiducia, Paesaggio e patrimonio culturale, Ambiente, Politica ed istituzioni, Sicurezza, Benessere soggettivo) che presentano peraltro forti interdipendenze con le quattro principali. Ognuno di questi settori è letto secondo tre chiavi di lettura (disuguaglianze di genere, di generazione, territoriali) facendone discendere un sistema di obiettivi mirati che la politica dovrebbe trasformare, come nuova modalità di azione pubblica, in microprogetti per i diversi territori e per i diversi domini.
La proposta di Carra è fondata sulla convinzione che stimolare e promuovere comportamenti virtuosi da parte dei soggetti sociali, in particolare delle comunità locali, possa, per la concretezza degli obiettivi, modificare i paradigmi della politica economica. Disuguaglianza e deriva del benessere sono una rilevante questione nazionale, così come rilevante è l’indicazione di una sua gestione settoriale. In altri termini, è una proposta che richiede una testa centrale e gambe locali. Se questo è il modo per ricostruire la società in senso progressivo, la deweyana “visione di un fine”, essa richiede, come ricorda Stefano Fassina, “«un piano e metodo d’azione» preceduto dall’«osservazione e dal giudizio»”; in altre parole, occorre identificare la testa e le gambe; in questo risiede il nodo politico della proposta di Carra. I riferimenti all’azione pubblica sembrano far riferimento a una testa, a un governo nazionale, che non sembra abbia tra i suoi obiettivi quelli auspicati e a gambe, gli enti locali, non sempre dotati di adeguate competenze e volontà (Fabrizio Barca potrebbe meglio qualificare questo aspetto) e tanto meno autonomia finanziaria di intervento. Non meno secondario è il contesto culturale che falcidia tutte le proposte non conformi all’esistente visione di politica economica.
Se non si accetta l’egemonia politica e culturale dominante, come non l’accetta Carra, l’ambizioso progetto presentato nel libro è condizionato dalla possibilità di individuare teste e gambe che, rovesciando il senso comune artificialmente alimentato dai poteri esistenti, riescano a dare una risposta all’aspirazione di più uguaglianza e più benessere. Di fatto, il quesito posto da Carra è come ricercare i poteri, le forze (sociali, politiche, di movimento) in grado di mobilitare, all’interno di una visione globale, uno sforzo comune per una riforma dell’esistente.