Il titolo del Nyt ieri: «L’unità nella Nato è diventata più difficile da sostenere». E su cosa? Ammettere l’Ucraina ora, come vogliono polacchi e baltici, significa «entrare in guerra con la Russia». Da il manifesto.
Al vertice Nato di Vilnius problemi a grappolo, come le «cluster bomb» che gli Usa intendono fornire a Kiev contro il parere dei più importanti membri dell’Alleanza, tra cui l’Italia, che hanno aderito, insieme a oltre 100 Stati, alla convezione di Oslo per bandirle.
Il primo caso è l’ingresso dell’Ucraina, esplicitamente rinviato dal presidente americano Biden a dopo la fine della guerra. Ci sarà probabilmente l’abbandono del requisito del Piano d’Azione per l’Adesione (Membership Action Plan, Map) per facilitare la candidatura dell’Ucraina, un contentino.
Ma incombe pure l’adesione della Svezia, appesa al veto della Turchia: Erdogan non perde l’occasione per alzare la posta e legare l’ingresso di Stoccolma a quello della Turchia nell’Unione europea congelato dal 2005 per la violazione dei diritti umani e l’occupazione militare turca di Cipro Nord: «La maggior parte dei 31 membri della Nato – dichiara – lo sono anche dell’Unione, quindi vogliamo anche noi la porta aperta per Bruxelles».
Erdogan, rieletto per la terza volta alla presidenza ma al ballottaggio, alza la posta perché la politica estera è il suo punto di forza (sull’economia ha dovuto fare marcia indietro alzando i tassi di interesse).
All’Ue chiede più soldi per tenersi in casa i profughi siriani e passaporti per i cittadini turchi, a Biden, che incontra in un bilaterale a Vilnius, la fornitura di caccia F-16 e il via libera a massacrare i curdi a piacimento.
In cambio offre la sua mediazione per rinnovare l’accordo Russia-Ucraina sull’estensione della Black Sea Grain Initiative, che scade il 17 luglio, da cui dipendono con l’export nel Mar Nero del grano e dei fertilizzanti, il 12% delle calorie mondiali. Dalla sua ha la garanzia dei colloqui con Zelenski e la diplomazia «telefonica» con Putin, che tra un mese andrà in Turchia a incontrare il “reiss” del fianco sud-orientale della Nato.
La Nato è un’alleanza militare difensiva – nei principi anche se assolutamente non nei fatti – che si è progressivamente sovrapposta all’Ue, la quale non solo ha mancato di elaborare una politica estera e di difesa comune, come prefigurava già il Manifesto di Ventotene del 1944, ma che con l’allargamento a Est della Nato ha anteposto gli obiettivi economici e di cassa (in particolare della Germania) a quelli politici ed etici.
Non solo: ha lasciato che l’allargamento a Est della Nato si sovrapponesse a quello dell‘Unione e alla fine la superasse.
E ora i nodi, a grappolo appunto, vengono al pettine: dalla Turchia all’Ucraina, ai bilanci sulle spese militari commisurati all’obiettivo del 2% del Pil (bilanci sempre più rigonfi a scapito degli investimenti sociali), alla stessa guida della Nato dove il mandato del norvegese Stoltenberg è stato prorogato di un anno per evitare tensioni, mentre si rincorrono le voci di una futura candidatura della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, ovvero di una tedesca, eventualità ritenuta dalla Gran Bretagna un «insulto» al patto d’acciaio tra Londra e Washington che non appare più inossidabile come un tempo, nonostante l’incontro di ieri tra Biden e re Carlo nella pompa degli onori militari di Windsor.
Questo vertice di Vilnius appare anche l’anticamera alla Nato «asiatica» temuta dalla Cina (dove è appena terminata la visita della Yellen).
La Nato che si era già schierata in Afghanistan per vent’anni dove il disastroso ritiro americano dell’agosto 2021 aveva discreditato la stessa Alleanza (parole del generale Giorgio Battisti nel suo libro Fuga da Kabul), adesso rilancia puntando al quadrante asiatico. A questo vertice di Vilnius partecipano i leader di Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone.
Non sono in pochi a ritenere che la Nato stia cercando di espandersi nella regione indo-pacifica dove ribolle la questione Taiwan.
La partecipazione di questi Paesi a Vilnius non è certo un semplice invito di cortesia ma – come sottolineava Lamperti su il manifesto del 9 giugno scorso – il tentativo di approfondire una cooperazione che ha preso lo slancio con la guerra in Ucraina.
Un processo che preoccupa la Cina, che si è più volte scagliata contro la creazione di una «Nato asiatica». Prima della guerra ucraina, nel mirino di Pechino c’erano soprattutto il Quad (la piattaforma di sicurezza che comprende Usa, Australia, Giappone e India) e Aukus, il patto di sicurezza tra Usa, Regno unito e Australia che prevede il dispiegamento di sottomarini nucleari nel Pacifico.
Ma anche qui ci sono problemi a grappolo. Non tutti sono d’accordo con l’allargamento all’Indo-pacifico. Tra questi non c’è solo la Cina, ma anche alcuni paesi membri come la Francia. Già scottata dall’accordo Aukus che le è costato un ingente cifra di sottomarini da inviare in Australia, Parigi considera un «grande errore» la possibile apertura dell’ufficio in Giappone, per la quale c’è bisogno dell’unanimità al Consiglio Nato.
Alla resa dei conti di questo vertice lituano c’è la sostanza, che il titolo del New York Times di ieri che sintetizzava con chiarezza: «L’unità nella Nato è diventata più difficile da sostenere». E su cosa? Sul semplice e brutale fatto che ammettere ora nella Nato l’Ucraina, come vorrebbero polacchi e baltici, significa «entrare in guerra con la Russia».
Forse sull’allargamento Nato ai confini della Russia bisognava pensarci prima: il diplomatico americano George Kennan nel 1997 lo definì l’«errore più fatale della politica americana dopo la fine della guerra fredda»
Articolo pubblicato su il manifesto dell’ 11 luglio 2023