Con la fusione Ifi-Ifil si accorcia la catena di controllo della famiglia. Ma resta il vecchio modo di trattare il parco-buoi del mercato: scarsa trasparenza e poco rispetto
La catena di controllo della Fiat da parte della famiglia Agnelli si accorcia: l’8 settembre i consigli di amministrazione delle “scatole cinesi” Ifi ed Ifil attraverso le quali gli Agnelli hanno mantenuto il controllo del più importante gruppo industriale del paese con un investimento di capitale minoritario, hanno deliberato la loro fusione.
Si tratta di un’operazione in linea con le pluriennali attese del mercato finanziario che non apprezza strutture di controllo “bizantine” che incentivano comportamenti dell’azionista di maggioranza difformi rispetto a quelli attesi dalla proprietà del capitale. E’ stata decisa perché la quotazione delle azioni delle suddette società presentava costantemente uno sconto non irrilevante rispetto al valore intrinseco e dunque gli Agnelli avevano un interesse tangibile ad accorciare la catena.
Malgrado queste premesse, la prima reazione del mercato è stata nel complesso scettica: sebbene alcuni titoli si siano apprezzati, altri hanno subito una pesante svalutazione. Perché?
Con ogni probabilità è la modalità con cui si è realizzata l’operazione che ha lasciato perplessi gli operatori: la fusione è stata decisa “a tavolino” dai consigli di amministrazione che hanno fissato il prezzo relativo delle due società (rapporto di cambio) avvalendosi di due advisor (consulenti) pagati da esse; essendo tuttavia differenti le azioni quotate delle due società (privilegiate per la controllante, ordinarie e di risparmio per la controllata) per il calcolo del rapporto di cambio i consulenti hanno necessariamente dovuto effettuare delle assunzioni che non potevano che essere arbitrarie. Con tali premesse, la delibera della fusione da parte dei consigli di amministrazione delle due società rappresenta un metodo vecchio, spesso non sostituibile per le società non quotate in borsa, che mal si attaglia alle regole di mercato.
Lo stesso obiettivo dell’accorciamento della catena di controllo mediante fusione poteva infatti essere realizzato con strumenti di mercato (market friendly). La società a monte della catena, l’Ifi, avrebbe potuto promuovere un’offerta pubblica di scambio (Ops) delle azioni della controllata IIfil in azioni della medesima categoria dell’offerente dopo aver deliberato un aumento di capitale a servizio della stessa offerta. Il prezzo di offerta, ossia il rapporto di cambio, sarebbe stato fissato autonomamente dall’azionista di controllo ma avrebbe passato il vaglio del mercato: con questa procedura ogni azionista avrebbe deciso se accettare o rifiutare l’offerta e nel caso in cui le adesioni fossero rimaste limitate, l’offerente avrebbe dovuto aumentare il prezzo per garantire il buon fine dell’operazione. Al termine dello scambio, una volta che la controllante fosse entrata in possesso della totalità (o quasi) delle azioni della controllata, la fusione sarebbe divenuta una mera incombenza burocratica.
Il non avere seguito tale procedura appare in qualche modo sorprendente; infatti è di tutta evidenza che il rispetto delle ragioni del mercato avrebbe potuto persino risultare più favorevole per gli azionisti di controllo nel caso in cui il prezzo di offerta fosse stato inferiore rispetto a quello deliberato dai consigli per la fusione e fosse stato accettato dalla gran parte degli azionisti di minoranza.
Alla luce di quanto deciso, appare chiaro che lo svecchiamento della classe dirigente torinese non è ancora completo e che la prassi di decidere sulle sorti di società quotate indipendentemente dalle legittime attese delle minoranze è dura a morire.