Le proporzioni della crisi greca sono modeste in rapporto all’economia europea. Ma i tempi della finanza non coincidono con quelli della politica: in attesa delle elezioni tedesche, si è aperta una finestra speculativa “perfetta” per rovinare un paese e contagiare gli altri. Mentre l’Europa non riesce a liberarsi dall’ideologia che ha portato alla grande recessione
Si può guardare alla crisi finanziaria che investe in questi giorni la Grecia da almeno tre punti di vista diversi.
1. Un’evidente ignoranza delle (modeste) dimensioni del problema. La Grecia ha un Prodotto interno lordo (Pil) di 235 miliardi di euro nel 2009, che vale meno del 2% del totale dell’Unione europea e il 2,5% dell’area euro. Ha meno dell’1 per cento della produzione manifatturiera dell’Unione e un Pil procapite di 21 mila euro l’anno, contro 29 mila in Germania. Il debito pubblico totale è intorno ai 250 miliardi di euro, che lo porta al 115% del Pil, la stessa quota dell’Italia nel 2009. Il deficit pubblico si è impennato e nel 2010 potrebbe arrivare al 15% del Pil. Atene (e Roma) sono però in buona compagnia: l’ultimo World economic outlook del Fondo monetario mostra che l’insieme dei paesi avanzati (Usa inclusi) ha nel 2010 un rapporto deficit/Pil del 9% (contro poco più dell’1% prima della crisi del 2008) e un rapporto debito/Pil che è salito rapidamente al 100%. Gli effetti della crisi hanno fatto saltare ovunque i conti pubblici.
Il problema specifico della Grecia sta nell’assenza di risparmio privato interno che possa finanziare il debito pubblico. Quasi tutto il debito pubblico è detenuto dall’estero, circa 200 miliardi di euro, nelle mani soprattutto di investitori di Germania, Francia, Svizzera, Austria. Gli operatori privati hanno invece un sostanziale pareggio tra attività e passività con l’estero (intorno ai 112 miliardi di euro). Viceversa, l’Italia ha un debito pubblico verso l’estero di 800 miliardi di euro (quattro volte la Grecia), che rappresenta però circa la metà del debito pubblico totale, il resto è detenuto da italiani.
Dei 200 miliardi di euro di debito estero della Grecia, a breve (il 19 maggio prossimo) vengono a scadenza 9 miliardi di euro. Le dimensioni assolute della crisi risultano quindi modeste; rapportato all’economia italiana, è come se un comune come Torino non potesse pagare i debiti. Rapportato alle dimensioni dei mercati finanziari, i 9 miliardi di euro di debito in scadenza per Atene sono equivalenti a quanto le borse europee finanziano le imprese per emissioni di nuovi titoli in dieci giorni (considerando la media del febbraio 2010), e rappresentano poco più dell’1% dei movimenti di capitale in entrata nell’area euro del 2008 (dati dal Global financial stability report del Fondo monetario, aprile 2010). In ogni caso, l’Unione europea e il Fondo monetario hanno preparato un piano di finanziamenti agevolati di 45 miliardi di euro che potrebbe risolvere le difficoltà di Atene.
2. Una spettacolare asimmetria tra ciclo politico e ciclo economico
Il problema è che i tempi della finanza non coincidono con quelli della politica. L’Unione europea e l’eurozona non si sono date strutture per affrontare crisi di questo tipo e, senza un rapido sistema di decisione politica, la crisi greca è montata progressivamente nella distrazione dei politici: quando precipita, ci si trova alla vigilia delle elezioni regionali tedesche, che impongono al governo di Berlino una certa rigidità (più nella forma che nella sostanza) e – soprattutto – il rinvio della decisione sul finanziamento europeo al 10 maggio, dopo le elezioni. Si apre così una finestra speculativa “perfetta”, alimentata da un susseguirsi di dichiarazioni allarmiste e di vendite dei titoli greci sui mercati che alimentano in un circolo vizioso le aspettative di crisi finanziaria per Atene e per l’euro. Le voci discordi, i silenzi e i rinvii delle autorità politiche aggravano la spirale e martedi scorso Standard&Poor classifica i titoli di debito pubblico greco come “spazzatura”. Soltanto Paul Krugman, dalle colonne del New York Times, risponde con una durissima critica alla mancanza di credibilità delle agenzie di rating.
Proprio mentre Goldman Sachs è sotto inchiesta negli Stati uniti per la speculazione al ribasso sui mutui immobiliari che ha contribuito al crollo della finanza Usa, speculare contro i paesi “fragili” sul piano finanziario diventa una ghiotta occasione per nuovi profitti speculativi che possano risollevare un po’ i bilanci delle banche provate dalla crisi. La finanza inizia a guadagnare chiedendo tassi d’interesse più alti – per comprare i titoli di stato decennaili di Atene si chiede ora un rendimento di 7 punti percentuali più alto dei Bot tedeschi (due mesi fa era di quattro punti) -, scommette sul deprezzamento del valore dei titoli pubblici e addirittura sull’insolvibilità del governo di Atene, una replica della crisi argentina di qualche anno fa. A farne le spese – se non ci sarà un risveglio della politica – sono la Grecia oggi, domani Portogallo, Spagna e Irlanda, dopodomani l’Italia.
3. Uno strano braccio di ferro tra mercati finanziari e potere politico
Tutto questo si può leggere come un braccio di ferro tra i mercati finanziari e un potere politico frammentato tra Bruxelles, Francoforte, Washington, Berlino e poche altre capitali europee – non può non colpire l’assoluto silenzio di Roma. Mentre negli Usa il presidente Obama lancia la sua campagna per regolare e ridimensionare la finanza, l’Unione europea e l’eurozona – a un anno e mezzo dallo scoppio della crisi finanziaria – non parlano ancora di riforme per controllare il sistema finanziario. Colpita dalla crisi, ma salvata dai governi – ricordiamoci le nazionalizzazioni massicce delle banche di Gran Bretagna, Germania, Irlanda, Islanda e molti altri paesi, che sono alla radice dell’aumento dei deficit pubblici – la finanza ora addenta la mano pubblica che l’aveva sottratta al fallimento.
Il problema è che i governi – spesso nelle varianti sia di centro-destra che di centro-sinistra -, i politici, i responsabili delle autorità di controllo sono in molti casi gli stessi che avevano cavalcato la liberalizzazione della finanza e consentito la speculazione. Continuano a credere che sia bene lasciare i mercati di finanza e monete senza vincoli e tasse, sanno che i consigli di ammistrazione accolgono volentieri ex ministri e banchieri centrali e, in molti casi, provengono essi stessi da esperienze nelle banche d’investimento internazionali. La politica, insomma – nonostante il conto pesantissimo pagato alla crisi – sembra incapace di pensare ad assetti diversi dei rapporti tra bene comune e interessi privati, finanza ed economia reale, capitale e lavoro. Sembra ancora prigioniera della visione del mondo neoliberista e, a quanto pare, non se ne sono liberati nemmeno gli elettori dei paesi europei: il 6 maggio in Gran Bretagna a raccogliere più voti potrebbero essere i conservatori di David Cameron che promettono di ridurre subito l’intervento dello stato nell’economia.
Altri aspetti della crisi greca erano già stati analizzati mesi fa su sbilanciamoci.info in un articolo di Laura Bisio (Crisi del debito: oggi Atene, domani Roma?) e di Alberto Bagnai (Anche l’Europa ha i suoi stati subprime). Lezioni ulteriori di grande importanza riguardano i rapporti tra dinamiche dell’economia reale e squilibri finanziari, e l’ovvia questione di chi pagherà i costi della crisi. Per Atene, prima ci sono state le perdite di capacità produttiva, competitività e posti di lavoro, fino ad arrivare a essere il paese Ue che ha la quota più bassa di occupazione industriale. Ora arrivano i tagli per i dipendenti pubblici, i salari, i servizi, nell’impossibile tentativo di pareggiare i conti pubblici e di placare la speculazione creando povertà nel paese. Dall’esito della crisi di Atene si vedrà molto del futuro dell’Europa, e di quello che aspetta l’Italia.