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Gianfranco Viesti: «Cambiare il Pnrr, l’esempio degli studenti»

L’economista Gianfranco Viesti, autore del libro “Riuscirà il Pnrr a rilanciare l’Italia?” (Donzelli): “I 660 milioni per le residenze universitarie del Pnrr ai privati, cioè costi agevolati fino al 2026, poi deciderà il mercato. La norma va modificata”. Da il manifesto.

Gianfranco Viesti, economista dell’università di Bari, il governo Meloni ha detto di avere sbloccato 660 milioni di euro del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) per costruire nuove residenze per i fuori-sede universitari. Gli studenti rispondono che non bastano e che andranno ai privati. È così?

Hanno perfettamente ragione. Abbiamo un’analisi molto chiara su questa misura fatta dalla più grande esperta della materia, Federica Laudisa, che ha spiegato che l’impostazione data dal governo Draghi a questa misura rischia di non risolvere i problemi. Il finanziamento pubblico va a strutture private che garantiranno costi agevolati solo fino al 2026 e poi useranno queste stanze a prezzi di mercato.

Nel suo ultimo libro Riuscirà il Pnrr a rilanciare l’Italia?(Donzelli) lei sostiene che, a partire dal 2026, questa decisione sull’housing non migliorerà la vita degli studenti. Per quale motivo?
Perché, così concepita, la norma aumenterà la dotazione dei posti letto, ma a costi di mercato e non agevolati. Non aiuta gli studenti più deboli; naturalmente il mercato degli affitti seleziona in base al reddito.

Cosa servirebbe per creare un vero diritto allo studio in Italia?
Un’azione a tre punte: riduzione delle tasse universitarie che ora hanno un ruolo molto distorto e sono addirittura un elemento di premialità per gli atenei; posti letto per gli studenti fuori sede e un numero ancora maggiore di borse di studio. Il Pnrr aumenta di molto le borse ma in maniera molto concentrata in un biennio. Una logica che mi sfugge. Avrebbero potuto tenere quelle risorse in bilancio e fare uno stanziamento pluriennale. Questo avrebbe avuto molto più senso. 

La vicenda delle residenze universitarie è un esempio del modo in cui il Pnrr accentuerà la riduzione del perimetro dell’azione pubblica e rafforzerà l’idea per cui il pubblico serve se fa fare profitti al privato?
Sì, c’è un po’ questa impostazione nel piano. Il governo Draghi è stato molto politico da questo punto di vista. Ha considerato l’azione pubblica come abilitante dell’attività delle imprese. Lo ha fatto complessivamente con una certa misura, anche se il piano risente di questa impostazione ad esempio nella parte sulla politica industriale.

Un pugno di persone ha plasmato il futuro dell’Italia e i progetti cadono dall’alto, lei scrive nel libro. A cosa è dovuta questa scelta?
Il piano è molto centralizzato. E questo ha luci e ombre. Torna un’azione dell’esecutivo nazionale che fa le sue politiche per tutto il Paese. Al tempo stesso le ha fatte molto chiuso in se stesso. Avrebbe dovuto interloquire di più con le rappresentanze economico-sociali e territoriali. Se Draghi avesse convocato i sindaci delle principali città e avesse parlato con loro per un pomeriggio, con gli stessi soldi e le stesse misure il piano sarebbe riuscito molto meglio. Il Pnrr è lo specchio dell’Italia oggi: è mancata la politica e c’è stato un eccesso di delega all’esecutivo. Trovo molto interessante che, a parte Giorgetti e Speranza, ai ministri tecnici del governo Draghi siano state delegate fra le estati del 2021 e del 2022, le grandi scelte politiche per il Paese. Con uno scarsissimo coordinamento della presidenza del Consiglio. Non dimentichiamo però che stiamo parlando di un colossale piano di investimenti pubblici. Quello che abbiamo chiesto per dieci anni dai tempi dell’austerità. Ci sta che ci possano essere misure che non funzionano bene. Se è così si va a Bruxelles e si cambiano, come ha fatto la Germania. Stavolta abbiamo una Commissione troppo interessata al fatto che il piano italiano riesca. Cerchiamo di sfruttare questa posizione di privilegio. 

È quello che sta provando a fare il governo Meloni?
Non è chiaro. L’impostazione resta la stessa di Draghi con un maggiore controllo di Palazzo Chigi sui ministeri, la sostituzione dei tecnici precedenti con quelli di fiducia dell’attuale governo e di Fratelli d’Italia sulle altre componenti della maggioranza. Ci può stare. Il vero problema è che, per fare questa operazione, serve un centro decisionale di grande qualità. E francamente, al momento, non lo si vede nel ministero di Raffaele Fitto. Ho paura di un rischio di ingolfamento. 

Nella cornice decisionista, neoliberale e tecnocratica del Pnrr mancano quasi del tutto i problemi sociali più urgenti: precarietà, diseguaglianze, povertà. Perché?
E’ l’impostazione di Draghi. Il piano è debole dal punto di vista delle diseguaglianze sociali e generazionali. E, dalla sua attuazione, pare di capire che lo sarà anche sulle diseguaglianze di genere. L’intero progetto è figlio delle circostanze politiche della sua epoca: è stato fatto da un governo di unità nazionale in cui la presidenza del Consiglio contava tanto e i parlamentari che la sostenevano pochissimo. 

Il Pnrr è una riedizione del vincolo estero che ha condizionato l’Italia sin dagli anni Novanta?
In parte sì. Abbiamo accettato una lettura dell’Italia fatta da Bruxelles. Una condizione che potrebbe produrre effetti positivi e altri discutibili. Ad esempio, nella parte delle “riforme” – un termine che non amo – impone la condivisibile riduzione dei tempi del processo civile. Altre parti sono decisamente più discutibili, a cominciare dal mercato del lavoro.

Cosa accadrà se, com’è ormai chiaro, non si riuscirà a spendere tutti i soldi del piano?
Vediamo. Per ora sono esterrefatto dal passaggio da un clima: “I miglior hanno fatto il piano più bello del mondo ed è impossibile criticarli”, al clima opposto: “Certamente non ce la facciamo, è un piano di sogni”. Non era un documento meraviglioso prima, non è un piano inconsistente adesso. Ci sono tanti interventi positivi: ferrovie, le città, i servizi sanitari, il rafforzamento delle reti elettriche e delle rinnovabili. 

Sugli asili nido sembra che ci siano molti problemi sia sulla costruzione che sui fondi per le assunzioni…
E’ vero, e infatti critico le decisioni sulla scuola. I soldi ci sono per le assunzioni nei nidi, ma non ci sono ancora per le Case della salute, per esempio. Sono preoccupato da una delle tante affermazioni fatte da Fitto, quella dove sembra dire che siccome le Case della salute ci imporranno di assumere gli infermieri allora ci dobbiamo ripensare. Non vorrei che si lavorasse per ridurre quegli investimenti pubblici che servono a migliorare molto i servizi, ma implicano un diverso bilancio pubblico corrente. Avverto una lettura molto pericolosa secondo la quale, visto che è complicato portare a termine gli investimenti pubblici, allora è meglio non farli.

Tutti gli osservatori hanno registrato le difficoltà a realizzarli. Lei stesso si sofferma a lungo nel libro…
Siamo d’accordo sul fatto che il settore pubblico, tagliato e maltrattato da decenni, abbia difficoltà a realizzare il Pnrr. E quindi? Ridurli? Assolutamente no. Il Pnrr è utilissimo perché ci obbliga a intervenire per realizzare gli investimenti pubblici. Io dico di cogliere questa occasione per cambiare. E’ questa impostazione che va difesa contro gli attacchi del partito dell’austerità. 

Anche se l’attuale governo ha le mani legate e manifesta evidenti difficoltà a realizzare un piano che ha molti limiti?
La politica è anche stare dentro le contraddizioni. È in questo spirito che auspico che Meloni, e cioè l’Italia, riesca nel Piano. E invece perda consensi sulle altre sue politiche. Non condivido l’idea di una lettura fatta anche da sinistra per cui, essendo stato fatto da Draghi, e realizzato da Meloni, è meglio che il Pnrr fallisca. Bisogna conoscere, discutere e partecipare. Quello che non è avvenuto nella prima fase del Pnrr. 

Cosa servirebbe per invertire la rotta?
Fare come gli studenti che lottano per cambiare il Pnrr con le loro tende.