I numeri dell’Ocse fotografano i mali della scuola italiana. Per la quale la trojka Gelmini-Sacconi-Tremonti ha un piano: disincentivare il più possibile l’ìstruzione
Nella prima metà dell’Ottocento, ci si poneva il problema di istruire i minori impegnati a lavorare in miniera. Data la lunghezza della giornata lavorativa, infatti, occorreva individuare congegni tali da dare loro la possibilità di imparare almeno le nozioni più elementari della conoscenza all’epoca disponibile.
Nel 2011, il trio Gelmini-Sacconi-Tremonti ha finalmente trovato la soluzione, la più semplice: disincentivare, con ogni possibile mezzo, l’istruzione dei giovani. Si badi che non si sta qui parlando di studenti universitari, ma di adolescenti in età scolare, ai quali – grazie alla recente normativa sull’apprendistato – verrà concessa l’opportunità di liberarsi dal fardello dei libri per dedicarsi al lavoro manuale. Detto più tecnicamente, si dispone che l’obbligo scolastico si può assolvere, anziché tra i banchi di scuola, nelle fabbriche andando a lavorare a partire dai 15 anni d’età. D’altra parte, il governo ha già predisposto adeguati incentivi all’abbandono scolastico, sebbene in via indiretta.
L’ultimo Rapporto Ocse sull’educazione, del settembre 2011, fotografa, per l’Italia, uno scenario per molti aspetti paradossale e comunque preoccupante per chi ancora ritiene che l’istruzione (oltre a essere un valore in quanto tale) costituisca un potente dispositivo per la mobilità sociale e la crescita economica. Il paradosso al quale ci si riferisce è il seguente.
Gli insegnanti italiani ricevono uno stipendio significativamente inferiore alla media Ocse, a fronte di un carico didattico maggiore. Gli studenti italiani stanno in classe circa 8.400 ore l’anno, contro una media Ocse di circa 7.000 ore. Ci si aspetterebbe un loro miglior rendimento. Al contrario, la percentuale di coloro che cominciano e terminano la scuola superiore è pari a meno dell’80% contro una media Ocse del 82.2%. In altri termini, il ministero impone un elevato impegno ai docenti (con basse retribuzioni), ottenendo risultati peggiori di quelli registrati in paesi nei quali il carico didattico è inferiore (e sono più alti gli stipendi).
Questo esito paradossale viene così motivato dal Miur: “Gli insegnanti italiani sono numerosi, per fare fronte all’elevato numero di ore di insegnamento; questa è una delle cause della loro retribuzione non alta”. Non è dato sapere, incidentalmente, quali siano le altre cause, per il ministro. Se, come da prassi nella retorica governativa, si ritiene che i professori siano “fannulloni”, occorre chiedersi quanta motivazione possano avere docenti pagati poco più di 1.000 euro al mese (con stipendi bloccati fino al 2014), con orari di lavoro superiori ai loro colleghi di altri Paesi. In ogni caso, la risposta ufficiale è palesemente falsa per due ragioni. La prima: gli stipendi sono bassi perché lo Stato italiano spende poco per l’istruzione (il 4.8% del Pil contro una media Ocse del 6.1%). La seconda: dire che gli insegnanti italiani sono numerosi non vuol dire nulla, se non si pone un termine di paragone. Si consideri, a puro titolo esemplificativo, il caso francese. Con una popolazione studentesca circa pari a quella italiana, la Francia ha sì un numero di insegnanti inferiore, ma il totale del personale impegnato nelle scuole è di circa 5.000 unità superiore al personale impiegato in Italia. A ciò si aggiunga che, nell’ultimo decennio, gli stipendi per il personale scolastico sono aumentati di circa il 7% negli altri Paesi Ocse, a fronte di una riduzione dell’1% circa in Italia.
Il ministro Gelmini, però, rassicura così docenti, famiglie e studenti: “Resta moltissimo da fare, ma la cosa più importante da portare avanti è la battaglia culturale: non si può tornare alla scuola e all’Università del ’68”. A prescindere dalla strana idea che un ministro della repubblica (non un partito politico, né un’associazione) possa portare avanti una “battaglia culturale”, va rilevato che se il ministro Gelmini associa il ’68 alle promozioni ‘facili’ (o al “18 politico” in Università), forse inconsapevolmente sta precisamente tornando a quegli anni. Ciò per questo meccanismo, denunciato da molti dirigenti scolastici. Il taglio dei fondi per i corsi di recupero porta a due soluzioni: i corsi vengono pagati dalle famiglie (opzione già dichiarata incostituzionale) oppure, in assenza di finanziamenti, le scuole non potranno far altro che, paradossalmente, bocciare o promuovere tutti. In questi due casi, le reiterate invocazioni alla premiazione del ‘merito’ verrebbero meno e, nel secondo caso, il ’68 – come visto dal ministro – sarebbe la nuova forzosa frontiera della scuola italiana.
La convinzione che il sistema formativo sia un puro costo è confermata dai numerosissimi documenti ministeriali nei quali la specificazione “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica” torna in modo ossessivo. Il furore ideologico, unito a incompetenza, a sua volta unito alla bizzarra idea che la crescita economica passi attraverso una minore scolarizzazione motivano questi provvedimenti. Che si pongono in stridente contrasto non solo con quanto rilevato – su basi teoriche ed empiriche – dalla gran parte della teoria economica (è semmai l’aumento della dotazione di capitale umano a poter trainare la crescita), ma anche dalle direttive Ue che sollecitano i paesi membri ad adottare misure che vadano nella direzione di costruire un’economia della conoscenza.