La riforma varata a dicembre dal governo Letta abolisce i rimborsi elettorali e anche il cofinanziamento, mentre in tutta Europa i sistemi di finanziamento pubblico diretto ai partiti sono considerati una componente fondamentale per il corretto svolgimento del meccanismo democratico
Prima di entrare nel contenuto dell’ennesima riforma in materia di finanziamento alla politica è opportuno soffermarsi su due questioni importanti. La prima richiama le qualità generali che una legislazione sul finanziamento ai partiti dovrebbe rispettare, la seconda è un invito alla chiarezza terminologica.
Per varare una legge sul finanziamento ai partiti serve innanzitutto che il legislatore rispetti alcuni principi fondamentali: una regolamentazione deve essere chiara, comprensiva e internamente coerente. Serve – come già più volte sottolineato sia da parte delle istituzioni europee sia da voci e richiami interni al paese – che venga istituito un testo di legge unico che regolamenti al suo interno l’intero complesso di aree che contraddistinguono la gestione economico-finanziaria dei partiti e il loro controllo. Una legislazione sul finanziamento ai partiti necessita quindi che sia comprensiva di norme che definiscano: le entrate dei partiti (il sistema di finanziamento pubblico e/o privato), le loro spese (tipologia e tetti di spesa) e la rendicontazione (soglie sopra le quali rendicontare e relative modalità). Al contempo, essa dovrà definire le autorità adibite al controllo della gestione finanziaria, le loro funzioni e le sanzioni nel caso in cui fossero rilevati comportamenti illeciti.
L’incontinenza legislativa in materia di finanziamento alla politica che ha caratterizzato i due decenni dal 1993 ad oggi ha prodotto una regolamentazione estremamente frammentaria, causa di dispersione, inefficienza organizzativa, mancata trasparenza e mancata attuazione normativa. Quella passata a dicembre in Parlamento, se rappresenta una rottura rispetto alle riforme precedenti per l’abolizione dei finanziamenti pubblici diretti ai partiti è, per il suo carattere emergenziale e per la mancanza di definizioni normative comprensive e trasparenti, espressione di piena continuità con le precedenti leggi in materia.
Per quanto riguarda la chiarezza terminologica, va detto che, come nel 1993, il finanziamento pubblico ai partiti non è stato abolito. Ad essere stati aboliti sono i rimborsi elettorali, l’unica forma di finanziamento pubblico diretto di cui i partiti hanno (abbondantemente) continuato a beneficiare in seguito al referendum del 1993. Rimarrà, quindi, il finanziamento pubblico indiretto: con la nuova riforma lo Stato rinuncia infatti a tassare una percentuale delle donazioni liberali ai partiti, privandosi dunque di entrate. È importante che questo venga precisato.
Fatte queste due premesse passiamo al contenuto della riforma. L’abolizione del finanziamento pubblico diretto determinerà una riduzione sostanziale dei finanziamenti pubblici ai partiti politici da parte dello Stato italiano. Questo è un bene? Da un lato certamente sì. Dati del Consiglio di Europa mostrano come l’Italia sia tra i paesi europei in cui i partiti politici hanno la più alta dipendenza economica dai finanziamenti statali (con una media dell’82%), superata solo da Belgio e Spagna (con medie di dipendenza dai fondi pubblici rispettivamente dell’85 e 87,5%). Indubbiamente sono cifre alte, rivelatrici sia di un flusso di denaro pubblico sostanzioso, sia della bassa incidenza delle entrate di donazioni e di contributi ai partiti da parte di privati. Sono le istituzioni europee a raccomandare che i partiti non siano eccessivamente dipendenti da fonti pubbliche. Partiti finanziati in maniera preponderante da fonti statali rischiano infatti di perdere il loro legame con la società, e di essere mantenuti in vita soltanto in quanto apparati delle istituzioni.
Allo stesso tempo, in Europa non si guarda con favore a sistemi di finanziamento di natura prevalentemente privata, come nella nuova riforma italiana. Abolire il finanziamento pubblico (diretto) ai partiti lascia infatti aperte alcune domande fondamentali, centrali non solo per il sistema di finanziamento alla politica in sé, ma anche e sopratutto centrali rispetto allo svolgimento delle regole del gioco democratico. Prima di tutto, quali interessi privati finanzieranno la politica? Il principio del divieto di donazioni ai partiti politici da parte di imprese e società vigente in vari paesi (tra cui Belgio, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Grecia e Francia) è quello di evitare che le politiche pubbliche siano guidate dai grandi interessi, secondo il motto ‘politics is not for sale’. Senza necessariamente voler abbracciare questo principio, siamo proprio certi che sia un bene formalizzare con atto di legge un sistema di finanziamento alla politica che verrebbe quasi interamente determinato dai grandi interessi economici ed industriali? E inoltre, come può questa riforma garantire il principio cardine dei sistemi democratici, cioè competizione equa tra partiti e gruppi politici, quando verranno inevitabilmente ridotte le chances di eguaglianza nelle competizioni elettorali, dato che saranno necessariamente i partiti numericamente ed economicamente affermati a beneficiare dei flussi economici più rilevanti, rispetto alle forze politiche minori o di formazione più recente?
Le istituzioni europee, governative e non-governative, incoraggiano quindi un sistema di finanziamento in cui vi sia un bilanciamento equo tra finanziamenti pubblici e privati. L’esperienza di altri paesi dimostra come rimediare a un’eccessiva dipendenza dei partiti dai fondi pubblici senza abolire forme di finanziamento diretto sia possibile. Basti fare riferimento alla Germania, il primo paese in Europa ad istituire un sistema di finanziamento pubblico diretto ai partiti politici (già nel 1959), che ha una percentuale di dipendenza dei partiti dai fondi pubblici tra le più basse di Europa (35%). Al fine di stimolare i partiti a mantenere il loro legame con la società civile, in Germania si è scelto di adottare un sistema in cui in cui i fondi pubblici vengono distribuiti ai partiti sulla base di un doppio criterio secondo il quale contano sia i voti ottenuti, sia la quantità di donazioni private ricevute (sistema del ‘matching funds’) e i fondi pubblici ai partiti politici non possono eccedere quello che, individualmente, ciascun partito riesce a ricavare da fonti private. Un sistema simile è stato attuato in Olanda, dove la percentuale di dipendenza dei partiti dai fondi pubblici è del 42%. La riforma del sistema di finanziamento pubblico attuata in Italia nel 2012 sembrava costituire un primo passo in questa direzione, con l’introduzione di un 30% di fondi pubblici distribuiti in relazione alle entrate derivate da tesseramenti e donazioni private (il cosidetto ‘cofinanziamento’).
Ma con la nuova riforma anche il cofinanziamento è stato abolito. Vale inoltre la pena rimarcare come i tetti per le donazioni fissati dalle nuove disposizioni siano particolarmente alti: 300.000 euro per persone fisiche e 200.000 euro per imprese sono cifre decisamente superiori alle medie europee (per fornire solo alcuni dati: i tetti massimi per donazioni da parte di persone fisiche sono fissati in Irlanda a 2.500 euro, in Francia a 7.500 euro, in Finlandia a 30.000 euro, ed era sinora la Spagna ad avere i tetti massimi più elevati, a 100.000 euro). Certamente si potrà ribattere che altrove in Europa i partiti ricevono ingenti finanziamenti statali, che verranno a mancare in Italia a seguito della riforma, motivo per cui fissare tetti alti è fondamentale per rimediare alla mancanza di questi ultimi. Rimane il fatto che mentre sistemi di finanziamento pubblico diretto ai partiti sono ormai diffusi in tutti gli stati europei (fatta eccezione solo per la Svizzera, Malta e l’Ucraina), e sono considerati come una componente fondamentale per il corretto svolgimento del meccanismo democratico, troviamo in Italia una riforma fatta di fretta, mancante di un apparato normativo adeguato e che va in netta controtendenza con l’Europa. L’anomalia italiana continua.