Le nuove sembianze del capitalismo finanziario post-fordista. Una chiave di lettura per comprendere la crisi europea nel libro dell’economista Michel Aglietta
A due anni di distanza dalla pubblicazione del volume Zona euro: esplosione o federazione (Michelon, 2012), l’economista Michel Aglietta dà un nuovo contributo al dibattito sulla crisi europea con il suo nuovo libro, Europa: uscire dalla crisi per inventare l’avvenire (Michelon, 2014). Economista della scuola della regolazione, Aglietta è un profondo conoscitore delle dinamiche strutturali – ed, in particolare, della loro dimensione finanziaria – dei sistemi capitalistici contemporanei. Il libro ha il pregio di unire, ad una disamina degli aspetti finanziari della crisi, la dimensione storica e politica della stessa. In questo modo, viene ricostruito un quadro generale che appare, giunti alla fine di un ragionamento lungo dieci capitoli, un potente strumento per rimettere assieme i pezzi di una crisi spesso di difficile comprensione.
Animato dall’ambizione di proporre un sistema istituzionale dal respiro globale – con una specifica e dettagliata articolazione a livello europeo – il nuovo libro di Aglietta aggredisce, sin dall’inizio, i tratti di uno dei principali oggetti di studio degli economisti della regolazione: il capitalismo finanziario post-fordista (importanti contributi fra gli altri Aglietta, 1976; Boyer, 2000 e Froud et al., 2001). Le sembianze assunte dalle economie occidentali nel loro passaggio a tale forma di capitalismo – dove, a predominare, sono la finanza e gli investimenti speculativi in luogo di quelli reali – rappresentano il contesto di riferimento utilizzato per comprendere l’attuale crisi europea. Il modo in cui tale trasformazione ha avuto luogo in Europa appare, assieme ad eventi di portata storica come la caduta del blocco sovietico e la riunificazione della Germania, cruciale per determinare la strada successivamente intrapresa per costruire l’Unione Europea. L’errore capitale commesso dall’Europa è, secondo Aglietta, quello di aver abbandonato il proprio modello di sviluppo, basato sul ruolo rilevante dei sindacati e su di una forte rete di protezione sociale, in favore di ciò che lui definisce il “fondamentalismo di mercato”. Su tale fondamentalismo, il cui portato individualista è ampiamento affrontato dall’autore, si sarebbero fondate le basi dell’integrazione europea. Basi fragili e inadeguate che, sottolinea l’autore, non avrebbero potuto produrre altro che un esplosione delle divergenze all’interno della nascente Unione.
L’adozione della moneta unica rappresenta per Aglietta un passaggio cruciale. Essa viene definita una moneta incompleta, frutto di un accordo spinto più da ragioni politiche che da un profondo ragionamento sulle implicazioni economiche di tale adozione. Viene rievocato il febbrile negoziato che vide protagonisti Kohl e Mitterand, con quest’ultimo deciso ad usare la moneta unica come arma per limitare l’incombere di un gigante economico come la Germania appena riunificata. Tale intento, tuttavia, si rivelò illusorio rispetto a quelli che erano i desiderata francesi. A beneficiare dell’introduzione dell’euro- in un contesto in cui nessuna delle istituzioni necessarie a far funzionare correttamente un unione monetaria, prima fra tutte l’unione fiscale, era stata prevista, se non altro non in delle dimensioni credibili – furono la stessa Germania ed i grandi operatori finanziari. Per questi ultimi venne a materializzarsi, sin dall’inizio, qualcosa di simile ad un parco giochi dove beneficiare della scomparsa del rischio di cambio, di ghiotti differenziali nei tassi di interesse e di regole bancarie più che accondiscendenti rispetto alle attività speculative che si propagarono in tutta Europa.
In un quadro simile, la via d’uscita possibile passerebbe attraverso un massiccio investimento del surplus tedesco a livello interno – per attenuare le diseguaglianze cresciute nel paese a causa della politica deflazionista, favorendo in questo modo la domanda di beni prodotti negli altri paesi europei – ed al livello esterno – allo scopo di attenuare gli effetti della recessioni pluriennale nei paesi della periferia. L’analisi è successivamente arricchita da una critica delle politiche – in particolare l’Unione Bancaria, l’istituzione del Financial Stability Mechanism e l’adozione del Fiscal Compact – adottate in Europa dall’esplosione della crisi in poi.
L’Unione bancaria è, in particolare, vista come la prima azione strutturale per affrontare problemi di natura strutturale. La sua insufficienza, tuttavia, appare essere ancora una volta il frutto di una logica non cooperativa tra gli stati membri. E ciò, sostiene Aglietta, non fa ben sperare per il futuro. Per quel che riguarda il Financial Stability Mechanism (FSM), esso è visto come un paradigma della dimensione prevalentemente intergovernativa della sfera politica europea. La conflittualità pervicacemente prodotta da tale modalità di governo rischia di condurre a risultati pericolosi per la salute della democrazia in Europa. Circa il Fiscal Compact (FC), Aglietta si pone in una posizione fortemente critica. Viene sottolineata la natura deflazionistica del FC, capace di alimentare circoli viziosi che rendono le recessioni fenomeni di lunga durata e dall’impatto devastante sull’economia. Queste iniziative, dunque, sebbene nei “titoli” contengano un flebile intento di salvaguardia di quanto costruito sin ora, si sono dimostrate altresì inutile – e, in alcuni casi, dannose – a causa del contesto caratterizzato da conflittualità e debolezza degli strumenti democratici.
La via d’uscita paventata da Aglietta fa il paio con alcune delle proposte recentemente ospitate su Sbilanciamoci! (Mazzuccato, 2012; Pianta, 2014 e Euromemo, 2014 e 2015). Essa introduce però un ulteriore elemento di rilievo. In linea con quanto sostenuto incessantemente da molti contributori di Sbilanciamoci! non appare possibile un futuro per l’Europa che non veda l’implementazione di una politica industriale su vasta scala, finanziata a livello europeo con un contributo sostanziale dei paesi in surplus e orientata ad una serie di obiettivi fondamentali: arrestare immediatamente la recessione; stimolare la trasformazione dell’economia europea verso settori produttivi altamente tecnologici ed ecologicamente sostenibili; intervenire sulle asimmetrie all’interno dell’Unione consentendo una reale convergenza delle aree arretrate.
In parallelo, Aglietta propone un passo ulteriore che, dal suo punto di vista, è esiziale quanto il primo. Si tratta della costruzione di un nuovo contratto sociale che abbia come obiettivo primario quello di ristabilire una reale democrazia in Europa. Tale contratto sociale passerebbe attraverso una regressione rispetto a ciò che, all’inizio di questo contributo, si è definito capitalismo finanziario. E’ ineludibile che le decisioni economiche rilevanti – in particolare le decisioni di investimento delle imprese – non siano più prese sulla base della spinta di un sistema finanziario privo di controllo democratico ed esclusivamente orientato ai profitti di breve periodo. Al contrario, andrebbe riscoperto un modello partecipativo in cui i lavoratori avessero la capacità di intervenire nelle decisioni produttive in modo rilevante e, allo stesso tempo, lo Stato recuperasse il suo ruolo preminente di produttore di beni pubblici e regolatore di ultima istanza del sistema economico. Una rivoluzione copernicana di questo genere, sembra suggerire nelle sue conclusioni Aglietta, costituirebbe l’unica strada credibile per intravedere un futuro per l’Europa, ma forse anche per il pianeta intero, fatto di pace e di sostenibilità economia ed ambientale .