Fuori o dentro l’Euro, è il dilemma che spesso viene posto. Mentre il buon senso potrebbe far considerare anche un eventuale, parziale passo indietro per farne poi due in avanti
Giorni fa, in pieno dramma greco, Antonio Polito scriveva un editoriale su Il Corriere delle Sera, il cui incipit era: Non c’è Europa senza Euro, non c’è Euro senza Europa. Il fatto che affermazioni del genere trovino spazio in un quotidiano storico a tiratura nazionale come questo, dà per intero la povertà e il livello di certa analisi, almeno di quella “ufficiale”. La prima affermazione è infatti un falso storico ed attuale.
La Comunità europea c’era prima dell’Euro, oggi ci sono paesi che non fanno parte dell’eurozona, ed è concepile anche senza una moneta comune. La seconda affermazione, non c’è Euro senza Europa, è poi una banalità assoluta che non vale la pena commentare. Si è fatto dell’Euro un feticcio facendolo coincidere con la stessa idea di Europa. Scambiando i mezzi con gli obiettivi e spesso sbagliando anche questi. Essendo la moneta un mezzo e l’ “obiettivo ideale un mondo in cui il progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico”1 ; che nemmeno c’è e difficilmente ci potrà essere in tali condizioni. La tesi dei propugnatori, in buona fede, della moneta unica era che questa avrebbe favorito politiche istituzionali, economiche e sociali di armonizzazione tra i paesi europei, insieme al processo di unificazione politica. Inoltre, avrebbe costretto i medesimi paesi ad affrontare le antiche e nuove tare e le proprie debolezze nazionali2. In un’Europa in cui persiste un forte dumping sociale e persino fiscale (Junker docet, e non da solo), mentre si impediscono (a discrezione) gli “aiuti di Stato”. Tutto questo non è avvenuto, e il principio della realtà, e non quello dell’arroganza intellettuale e soprattutto degli interessi, vorrebbe che si riconoscesse che l’Euro ha ottenuto l’effetto contrario nei suddetti campi. Trascinando al ribasso tutti gli indicatori economici e sociali europei, in particolare di quelli aderenti all’Eurozona, e con maggior danno ovviamente dei paesi più deboli3.
Eppure, per memoria dei tanti inquisitori dell’attuale governo tedesco, che non fa che ribadire con tetragona fermezza la politica nota da sempre del suo paese, va ricordato che il cancelliere socialdemocratico Schmidt implorava, a suo tempo, il nostro ministro dell’economia C. A. Ciampi del governo Prodi, a non entrare nell’Euro perché non ce l’avremmo fatta a sostenere quel sistema. Come è noto, i “sacrifici” accelerati negli anni precedenti per avvicinare i parametri richiesti (ma non quello debito pubblico / PIL) per l’ammissione all’Euro, non furono capiti dall’elettorato che infatti votò per Berlusconi. E, subito dopo l’ingresso nell’Euro, almeno in Italia, abbiamo subito un veloce e spropositato aumento dei prezzi, non rilevato dalle fonti ufficiali che ancora sostengono una sorta di illusione da “percepimento” da parte di milioni di persone, nell’assordante silenzio generale delle forze politiche e sociali. Mentre lo straordinario e correlato aumento dei profitti non è certo andato al rafforzamento del tessuto produttivo del Paese, ma in finanza prevalentemente all’estero. Che le politiche deflazionistiche tradizionali della Germania non siano la ricetta per la ripresa dello sviluppo, e quindi anche per il pagamento del debito della maggior parte dei paesi europei, è cosa di evidenza logica e soprattutto storica. Lo ricorda ancora una volta P. Krugman in un recente articolo4.
Ma l’aver fatto di Schoible il capro espiatorio di tutto serve a nascondere l’accettata subalternità delle classi dirigenti europee, tanto da poter pensare ad una sorta di sindrome da Vichy. E soprattutto dimenticare che è non meno pericoloso l’abile governatore della BCE che sa benissimo come questa “trappola per topi”, con il suo mantra “austerità per lo sviluppo”, indebolisca economicamente, socilamente e politicamente l’Europa, a tutto vantaggio dei poteri dominanti, soprattutto finanziari anglo americani. Volutamente o meno, è in fondo la stessa tecnica usuraia abbondantemente usata nell’America latina: indebitamento insostenibile e dipendenza politica. Magari in attesa dell’ ”assorbimento” – Germania inclusa con il suo modello sociale che andrebbe invece difeso – da parte americana di cui il Ttip potrebbe rappresentare un primo passo. L’offensiva in Italia contro il modello cooperativo nel credito ne è probabilmente un segnale. Un’agonia, innanzitutto per le fasce più deboli che devono pagare i contenuti della “lettera BCE“ neoliberali (ma solo per il lavoro beninteso), antisociali e neoautoritari come la politica del nostro Governo (politiche permanentemente antisociali non possono che prevedere governance di tipo autoritario). Sia detto per inciso, anche la recente promessa di alleggerimento fiscale “in cambio delle riforme” ha poco a che vedere con le promesse elettorali berlusconiane e molto con l’attuazione del programma BCE. Una lenta agonia che pagano e pagheranno i ceti popolari dei paesi più deboli per la permanenza in questa europa e in particolare nell’eurozona. Paesi che – rebus sic stantibus – sono destinati alla stessa sorte del Mezzogiorno d’Italia. E ad onta dei tanti benintenzionati non si vede perché debba cambiare lo “stantibus”. Non a caso oggi Draghi è l’unico vero interlocutore della Merkel con il soccorso, in caso di emergenza, del FMI e dello stesso Obama, che ha ovvimente i suoi problemi geopolitici, come nel caso greco.
Ma prendersela con la BCE sarebbe un altro falso bersaglio: la responsabilità è naturalmente politica e di chi opportunisticamente ha delegato la propria responsabilità ai tecnici, generalmente al servizio dei poteri dominanti, senza naturalmente abbandonare i loro interessi di parte. Basti ricordare i profili degli attuali commissari CEE stracolmi di conflitti di interesse. L’effetto deleterio della situazione ormai in atto da tempo, anche in Italia, e forse il peggiore, è quello appunto dell’avvenuta progressiva deresponsabilizzazione delle classi dirigenti politiche europee (meno quelle tedesche) e per risulta degli stessi popoli europei, che ha impedito anche di fare veramente i conti con i ripettivi problemi di inefficienza, corruzione, evasione fiscale. Popoli che eleggono parlamentari europei irrilevanti e nazionali senza potere effettivo nelle scelte importanti; con rituali consultazioni elettorali e referendarie dai risultati concreti scarsi o persino contrari rispetto ai programmi votati o alle scelte effettuate. E che portano di conseguenza alla fuga dell’elettore. Non è certo estraneo l’enorme potere dei centri economici e finanziari, delle multinazionali, che condizionano fortemente, se non addirittura esprimono buona parte delle classi politiche ed amministrative, gli organi di informazione e molte università e centri di ricerca. Guido Calogero, il filosofo del liberalsocialismo, avvertiva: “Senza eliminazione degli squilibri di potenza economica non c’è mai vera libertà politica, e senza la garanzia delle libertà politiche non c’è neppure la possibilità di sapere se la giustizia economica sia reale o illusoria”5.
Penso che ogni cittadino, appena informato dei fatti, e che riesca a sottrarsi alla strategia del terrorismo economicio o della cloroformizzazione o della sottrazione delle informazioni o della distrazione di massa, si debba seriamente preoccupare dello stato della democrazia e della sua deriva attuale. Per tornare all’Europa viene – a mio avviso per errore o per intenzione – posto il dilemma secco: fuori o dentro l’Euro. Mentre ci sono diversi modi di permanenza ovviamente, ma anche di uscita, temporanea o meno (come avvenne per il serpente monetario); concordata, insieme ad altre misure di intelligente politica solidale, oppure per “cacciata” o fuga disperata o “esplosione” generalizzata e quindi ingestibile. Il buon senso potrebbe far considerare anche un eventuale, parziale passo indietro per farne poi eventualmente due in avanti. Nel passato ha funzionato abbastanza bene, ad esempio, il cosiddetto “serpente monetario”. Perchè non fare un tale parziale passo indietro da parte di alcuni paesi? Permetterebbe una maggiore libertà di manovra del tasso di cambio e di politiche economiche. La quale, se effettuata con intelligenza e finalmente con spirito solidale ed unitario, potrebbe far riprendere con più facilità (e anche responsabilità nazionale) quel processo di armonizzazione necessario che avrebbe dovuto precedere e non seguire la moneta unica. A metà degli anni settanta Federico Caffè scriveva inascoltato: ”Molti anni addietro invitai a diffidare del dottrinarismo utopistico di chi, dimenticando appunto l’indirizzo gradualistico dei padri fondatori, propone di far precedere l’integrazione comunitaria per la via dei meccanismi monetari. Quale che sia il virtuosismo tecnico dei sostenitori di indirizzi del genere, sorprende e preoccupa l’immaturità epistemologica, in quanto dovrebbe essere di per sé evidente che il discorso dell’unificazione monetaria non può essere una premessa, ma una conclusione. Come l’Upupa della Minerva, che compare al crepuscolo, l’unificazione monetaria presuppone una dura giornata di lavoro in altri campi, che non può essere né evitata, né scavalcata”6.
1Federico Caffè, “Problemi controversi sull’intervento pubblico nell’economia”, Note economiche, n. 6, 1976.
2Si veda la recente autocritica di P. Lamy, l’ex consigliere di J. Delors, “L’Euro? Pensavamo fosse più facile. Parigi e Berlino hanno rovinato tutto” , Il Fattto Quotidiano, 19 luglio 2015.
3Lo ricorda molto bene Giuseppe Guarino insieme al dimostrato stravolgimento dei Trattati europeri, Cittadini europei e crisi dell’Euro, Editoriale scientifica, Napoli, 2014.
4P.A Krugman, “Il sogno impossibile dell’Europa”, La repubblica del 22 luglio 2105.
5Guido Calogero, In difesa del liberalsocialismo, Atlantica, Roma 1945.
6Federico Caffè, “Una fase critica della cooperazione economica internazionale”, La Comunità internazionale, primo trimestre 1976.