La crisi come momento di discontinuità nel sistema economico e nei paradigmi della sua interpretazione. Una risposta ai commenti di D’Antonio
E’possibile che non sia riuscito a rendere trasparente il significato che attribuivo alla mia breve nota sulle implicazioni culturali del liberismo. Voglio quindi considerare i commenti di D’Antonio al mio articolo, anche se ruvidi e sbrigativi, come un invito a sviluppare ulteriormente i temi trattati per rendere più esplicito il retroterra di quanto si diceva in quelle pagine.
Le questioni sollevate da D’Antonio sono sostanzialmente due: 1. nell’articolo non ci si misura con i temi di fondo suscitati dalla crisi e cioè con un’analisi “puntuale” delle sue cause; 2. non partire da un sano realismo nelle riflessioni, e in particolare dal fatto che il liberismo ed il globalismo sono state una componente importante di un processo di sviluppo economico significativo e duraturo, porta da un lato ad una insufficiente comprensione delle ragioni del consenso che queste esperienze hanno incontrato tra le popolazioni e, dall’altro, al rischio di disperdersi in ragionamenti che vengono considerati poco più che vaghe argomentazioni “buoniste”.
Premesso che le persone di buone letture sanno che non si può chiedere ad un racconto ciò che si chiede normalmente ad un romanzo e quindi che è difficile pensare che un articolo breve, e soprattutto che si pone l’obiettivo di parlare d’altro, possa contenere un’analisi, per di più puntuale, delle cause di quel che è successo, le mie riflessioni nascono dal fatto che quel modo di essere dello sviluppo del sistema internazionale – che tanto successo aveva avuto in passato – sembra non funzionare più. Cosa che dovrebbe indurre tutti, anche il realista D’Antonio, a tornare a riflettere. E ciò anche se si possono avere opinioni diverse sulla profondità della crisi.
Perché dunque occuparsi del rapporto tra le istanze che vengono dalla società e le cosiddette leggi economiche? Per chiarezza espositiva provo a riassumere per punti le convinzioni (che, come tali, possono essere condivise o meno) che stanno dietro a quanto detto nell’articolo.
La prima convinzione è che i paradigmi culturali, in particolare quelli economici, possano essere visti come il tessuto connettivo di un modo di essere dello sviluppo economico. In qualche modo lo rendono stabile perché garantiscono quella componente della fiducia sistemica (la fiducia nella capacità di capire) che è indispensabile perché un sistema con decisioni decentrate possa funzionare. Questo può spiegare sia il fatto che i paradigmi siano cambiati radicalmente almeno due volte nel corso dell’ultimo secolo, ma anche perché mano a mano che un modello di crescita si consolida, il paradigma economico ad esso collegato tenda a diventare egemone e a permeare di se l’intera cultura sia a livello strettamente scientifico che a livello politico, peraltro senza eccessive distinzioni tra destra e sinistra. A questo proposito, e senza dover far riferimento alla situazione attuale, può essere sufficiente ricordare che nel dopoguerra lo stesso Milton Friedman si dichiarò keynesiano e che la nascita del welfare state fu il risultato anche della cultura liberale di quegli anni.
La seconda convinzione è che la crisi che stiamo vivendo possa essere intesa come un momento significativo di discontinuità nel processo di sviluppo internazionale, anche se resta ancora da capire quanto profonda sia questa discontinuità. E dunque che anche la cultura economica dovrà in una qualche misura ripensarsi a partire dai fallimenti emersi a livello di funzionamento del modello.
La terza convinzione è che la distribuzione del reddito sia uno degli elementi centrali che connota ogni specifico modello di sviluppo sia a livello nazionale che internazionale; ne è parte integrante. E che la crisi sia anche espressione del fatto che la distribuzione del reddito generata da un modello di crescita fortemente centrato sul mercato non sia compatibile con le condizioni di sviluppo di lungo periodo. In altre parole, che la forte redistribuzione che si è avuta per oltre venti anni, in tutti i paesi industriali, a favore dei profitti, ed il progressivo indebolimento economico e politico dei cosiddetti “ceti medi”, abbia reso più difficile il funzionamento delle democrazie ma, contemporaneamente, abbia anche reso più instabile lo sviluppo.
Difendere i diritti e, più in generale, tutelare i valori di una piena inclusione sociale vuol dire garantire coesione politica e riaffermare la priorità della dimensione sociale su quella (presunta) economica. Per chi pensa, con F. Caffè, che “il progresso sociale e civile non debba essere considerato il sottoprodotto dello sviluppo economico ma un obiettivo coscientemente perseguito” questa considerazione può essere di per sé sufficiente. Ma lo è ancora di più se si è convinti del fatto (quarta convinzione) che la politica di tutela delle componenti sociali più deboli non sia solo eticamente giusta, ma debba anche essere considerata lo strumento più efficace con il quale si possono creare le condizioni per una distribuzione del reddito coerente con le esigenze di sviluppo di lungo periodo sia all’interno dei singoli paesi sia a livello di intero sistema economico internazionale.
La quinta ed ultima convinzione è che i paradigmi culturali, proprio per il loro ruolo di cemento di uno specifico modo di essere dello sviluppo, tendono a cambiare con molta lentezza. L’esperienza del passato (gli anni trenta) ci ha insegnato che le inerzie, a questo livello, sono enormi e non facilitano certo quei processi di adattamento sul piano istituzionale e delle politiche di intervento che, nelle fasi di crisi, sono indispensabili per creare le condizioni necessarie per una nuova fase di sviluppo. Basti pensare che, ai tempi della grande crisi, mentre la politica di intervento, sia pure in maniera frammentaria, si è mossa fin dalla metà degli anni trenta a sostegno dei gruppi sociali più svantaggiati dalla crisi, solo con il 1938 veniva riproposta, con un famoso articolo di Harrod, la centralità della questione della distribuzione del reddito all’interno della riflessione economica. Ed è proprio questa lentezza che attribuisce al dibattito sull’economia – sviluppato sia al livello teorico che a quello delle implicazioni di “senso comune”- un ruolo potenzialmente significativo come elemento di accelerazione di un cambiamento che non può che passare attraverso la creazione di una diversa “visione del mondo” (quanto diversa lo scopriremo col tempo) e quindi di quelle nuove condizioni di fiducia sistemica indispensabili per riavviare un percorso di crescita.