Stato e politica, lavoro e Costituzione non sono cadaveri del secolo passato ma pietre angolari per il futuro. E l’ordine nuovo si formerà per la strada
Il ‘post’ – abusato e preposto a ogni attributo della nostra età: moderna, industriale, fordista o financo umana – ha filtrato il nostro assaggio del nuovo secolo. Che fosse sonda di rabdomanti in ricerca di nuova linfa o carrozzina concessa con malizia ai sopravvissuti di un epocale rovescio, quel prefisso ha comunque ridotto la sinistra o le sinistre, che dir si voglia, a comparse di una rivoluzione passiva. L’evidenza è solare nelle piazze di questo 2011, del suo 15 ottobre. Islamiche, occidentali o asiatiche: mai così piene e tumultuose. Ma lontane, diffidenti, critiche di soggetti e simboli ridotti spesso a meri punti cardinali: distanti e assorti nell’altrove siderale della politica; alti e altri rispetto alla strada, alla vita.
Altro che tuffo nel futuro. Una destra operosa, vitalistica o tecnocratica, è all’opera. Basta guardare all’invocazione rivolta a Ows, Occupy Wall Street, a divenire il Tea Party della Left americana e globale, a consumare fino in fondo la frattura rispetto ad Obama e al Partito democratico.
Eppure basterebbe poco. Dismettere magari gli opposti estremismi sulla fine del 900 o su una storia immobile, sempre eguale a se stessa. E chinarsi sui fatti, sui processi in cui siamo immersi. La storia adesso può aiutare. Intanto deraglia. Da tempo ha travolto il muro dell’eternità liberale profetizzata da Fukuyama. Si è fatta beffe persino delle barriere edificate a Maastricht su spesa e debito pubblici: che si fosse cicale meridiane o notturne formiche.
Una vicenda istruttiva assai questa del debito pubblico. Ovunque nel mondo, e non solo in Europa, saltano limiti e divieti. Obama vi ha perso un anno quasi di presidenza, in un debilitante corpo a corpo con una destra e un Congresso costretti a rimodellare infine, sia pur di poco, il tetto di casa. Persino nella Cina di strepitosi avanzi commerciali un debito enorme – l’asticella è a poco più dell’80% rispetto al Pil – trattiene e parcheggia quasi un miliardo di cinesi sull’orlo di metropoli e aree di sviluppo, foraggiando agricoltura di sussistenza e manifattura prefordista.
Da qualche tempo si preferisce aggettivare il debito come sovrano, piuttosto che pubblico. La lingua batte dove il dente duole. La crisi del neoliberismo scoperchia una verità a lungo solo annusata dall’inesausta discussione sulla globalizzazione. Politica e stato l’hanno fatta da padroni. Sia quando si doveva imbellettare imprese e territori per farli galoppare e rifulgere sul proscenio globale: naturalmente a danno di welfare e degli ultimi. Sia ora che bisogna impedire il tracollo di banche e imprese o adeguare previdenza e sanità alla demografia e all’ambiente di terzo millennio.
È un trionfo del pubblico disseccato da ogni istanza democratica. Sicuramente da ogni protagonismo parlamentare. Padroni sono esecutivi e tecnocrazie che s’arrischiano ora in ricette e patti di stabilità sempre più spericolati. Sognano di eternare un nuovo Termidoro.
L’hanno avuta vinta finora grazie alla crisi del lavoro e dei suoi mondi, dei suoi soggetti, travolti da un’ennesima mutazione. Si erano illusi però, sull’onda di altre disinvolte profezie, che fossimo, oltre che al capolinea della storia, anche alla «fine del lavoro». Il capitalismo globalizzato ha invece arruolato la terra intera, slargandone le forze di lavoro, sia pure per lande e forme sideralmente lontane da quelle classiche, sempre più precarie e reticolari: secondo l’Oil, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, si è passati dai 2 miliardi e mezzo del 1980 ai 3 miliardi e 300 circa del 2010.
Con esse sono chiamate a fare i conti le nuove élite termidoriane messe in moto tempo fa dalla Trilateral Commission e dalla sua ricetta sull’ingovernabilità delle democrazie. Soprattutto adesso che, chiusa la parentesi della guerra al terrorismo, gli ultimi di Seattle 1999 e Genova 2001 tornano a smuoversi e provano a farsi soggetto.
Si rifanno ai «beni comuni». C’è chi arriccia il naso di fronte a venature o tentazioni organicistiche. Altri da snob li derubrica a surrogato cristiano del socialismo che fu. Ma come non vedere nelle vele del 15 ottobre 2011 il vento migliore delle Costituzioni novecentesche? Lì è divenuta finalmente limpida la prospettiva disegnata dall’art. 29 della Dichiarazione universale dei diritti umani: «Ognuno ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Troppo a lungo sequestrata dalla gabbia del bipolarismo o dalla supponenza dell’unipolarismo «a stelle e strisce», essa torna ora agibile, non come strumento di Corti di giustizia o scommessa aristocratica dei migliori, ma come lievito nelle mani dei tanti vogliosi di tornare a reimpastare il pane di un percorso comune, di costruire i cardini condivisi di un nuovo ordine. Altro che «la bandiera primitiva» imputata da Galli della Loggia alla giornata del 15 ottobre o, sul fronte opposto, la «definitiva rottura del recinto», l’«irriducibile no» alla Bartleby prefigurato da Bertinotti.
Ce lo ricorda l’Ows americano con la sua 99 Percent Declaration. In nome del 99% del popolo americano e del 1° Emendamento alla Costituzione americana, viene convocata per il 4 luglio 2012 una Assemblea generale di rappresentanti del popolo americano, da eleggere distretto per distretto, maschi e femmine in pari numero, chiamata ad elaborare una petizione al Congresso sui torti subiti, sulle materie roventi della casa e del lavoro negati, della sanità e del fisco storpiati dai ricchi, delle spese militari ecc.
Come farne tesoro qui in Italia? Qui dove la Costituzione, difesa e vissuta davvero come bene comune, è sempre nel mirino della destra? Di chi ora la vuole storpiare nel letto di Procuste del pareggio di bilancio, di un «vincolo esterno» compiutamente costituzionalizzato?
Stato e politica, lavoro e Costituzione non sono cadaveri del 900. Anche nel secolo nuovo saranno pietra angolare d’ogni possibile dimora. Un ordine davvero nuovo non è, nel tumulto dei nostri giorni, traguardo visibile di un’autostrada piana e rettilinea. Anche Kissinger, dall’alto del suo Arte della diplomazia, si sporgeva cauto sul futuro con un antico detto spagnolo: «Viandante, non ci sono strade. I sentieri si formano camminando». Per parte nostra lo preferiamo, e non solo per ragioni politiche, nella splendida versione di Antonio Machado: «Caminante … no hay camino, se hace camino al andar … Caminante, no hay camino sino estelas en el mar…».